Una straordinaria pagina di dolore e misericordia

C’è un episodio, fin troppo noto, ne “I promessi sposi” dove l’immagine della pietà cristiana è davvero sublimata: quello della madre di Cecilia che depone il corpicino esanime della piccola sul carro dei monatti.

Renzo, che attraversando Milano va scansando i morti per la peste, si trova suo malgrado davanti ad una scena che come pochi altre sottolinea l’orrore di una situazione in cui l’umanità, inerme di fronte alla peste e senza possibilità di difendersi, si ritrova ridotta a corpi da scaricare. Un culmine patetico molto più accentuato che in tante altre scene del romanzo manzoniano, anche più di quelle viste nel lazzaretto. Una scena dove il silenzio della morte la fa da padrone, coprendo ogni suono, ogni voce, come «in un mercato di granaglie», che pure ci pare di sentire in sottofondo.

La donna che Renzo vede uscire da un palazzo, attraverso i toni lenti, solenni, non meno che commossi con cui viene descritta, ci viene mostrata magistralmente isolata da tutto quanto la circonda. Addirittura un’astrazione nella cruda brutalità del momento.

Impareggiabile la descrizione che Manzoni fa di questa donna:

«…una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa […]. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo».

Una descrizione scandita dal reiterarsi di quel “ma” avversativo che contribuisce a mettere a confronto lo stato di evidente deperimento che prestissimo la condurrà alla morte con il ricordo della giovanile bellezza.

E non è da meno la contestualizzazione:

«Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno».

Colpisce quel «vestito bianchissimo», un colore certamente più adatto ad una festa. Un contrasto che può essere accettato solo per l’amore e la fede che riescono a dare nuova significanza al trapasso finale e a impedire che il caos prenda il sopravvento sul secolare rigore che deve governare il rito della sepoltura. Un atteggiamento di fredda e composta determinazione, quello della madre di Cecilia, simile alla Madonna ai piedi della croce che con la sua presenza riempie di umanità l’estremo sacrificio del Figlio; una morte che non è più l’estrema negazione dell’uomo ma la consapevole attestazione dell’umano.

Il composto dolore della madre della piccola Cecilia mette in soggezione finanche il monatto, il cui cuore si apre alla commozione per un incontro straordinario con una persona di una grande e interiore nobiltà, tanto da diventare premuroso e addirittura ossequioso per quel sentimento di amore materno da cui resta come soggiogato.

E com’è delicato anche don Lisander, che per rispetto al dolore della donna si premura di non utilizzare mai il termine “morte” preferendogli il meno impegnativo “sonno”.

L’episodio si conclude con una suggestiva similitudine, che raffigura il sonno eterno a una falce che pareggia tutte le erbe del prato, cosicché «il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia».

Nella poetica manzoniana per tutti c’è la misericordia e l’amore di Dio, al quale si rivolge Renzo per chiedergli di prendere presso di sé la madre e la sorella di Cecilia che «hanno patito abbastanza!». Un’invocazione che evoca tanti finali delle tragedie classiche, dove il passaggio all’altra vita è l’unica via d’uscita dalle sofferenze.

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Michele Vespasiano

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