Ci sono voluti tre quarti di secolo perché dalla nebbia che il tempo ha disteso sulla storia si affacciasse il nome di un altro “eroe” irpino, capace di anteporre l’umanità alla barbarie nazifascista, la fratellanza alla delazione, la carità cristiana agli obblighi di un dovere non riconosciuto come tale. Cosicché, se finora sapevamo che fosse solo Giovanni Palatucci come l’unico irpino tra i 417 italiani finora riconosciuti ”Giusti tra le Nazioni”, una meticolosa ricerca condotta dallo storico veronese Olinto Domenichini ci consegna anche il nome di Felice Sena di Sant’Angelo dei Lombardi, come legittimo aspirante al riconoscimento che tocca ai non-ebrei, che a rischio della propria vita e senza interesse personale hanno agito in modo eroico, per salvare anche un solo ebreo dal genocidio della Shoah. Un attestato che Sena, vicebrigadiere di Polizia, in servizio a Verona fin dalla metà degli anni trenta, meriterebbe senza alcun dubbio.
Ma come e da dove è arrivata questa scoperta? Rivela Domenichini: «Ero alla ricerca di una spiegazione sul perché dei trecento ebrei che erano stati censiti a Verona solo una trentina erano stati deportati. Mi pareva decisamente strano, fin quando non mi sono imbattuto in una sfilza di rapporti alla Questura scaligera dove si dichiarava che gli ebrei che si stava rintracciando risultavano irreperibili o che non erano nelle condizioni per essere arrestati. Sotto a questi rapporti, tutti uguali come scritti con la carta carbone, una sola firma, quella del vice brigadiere Felice Sena. Dopo un comprensibile, iniziale stupore mi è apparso chiaro che doveva trattarsi di una precisa strategia, messa in atto dal sottufficiale per garantire l’impunità alle persone della comunità ebraica. Insomma – conclude lo storico veronese – ero andato a cercare il male ed ho trovato il bene».
Ad accostare ulteriormente il finora sconosciuto “eroe” di origine santangiolese all’eroico questore di Fiume, dunque, c’è pure la divisa.
Brevi note biografiche ci dicono che Felice Sena era nato a Sant’Angelo dei Lombardi il 21 marzo 1909 (alle quattro del pomeriggio, annota con pignoleria l’atto di nascita conservato all’anagrafe) dal quarantaquattrenne Antonio Sena, di mestiere conducente di calessi, e da Sabina Tarantino, casalinga e sua legittima moglie. I Sena, un’onesta famiglia di santangiolesi che gli atti di anagrafe definiscono carrozzieri, abitavano al numero civico 21 del popolare borgo San Rocco. Un mestiere, quello del trainiere, che richiedeva sacrificio e modestia; valori che, evidentemente, avevano informato il giovane Felice, il quale, completato il primo corso di studi nella locale Scuola Tecnica, non appena se ne presentò l’occasione, anche per non pesare ulteriormente sulle spalle della famiglia, all’età di 17 anni lasciò il paese dopo aver fatto domanda per anticipare il servizio militare. Partì così volontario per la Libia, dove per tre anni prestò servizio a Tripoli e Sirte nel corpo dei “Cacciatori d’Africa”, un reparto che lui definiva ironicamente “cacciatori di pidocchi” per mancanza di un armamento adeguato. Raccontava ai familiari, infatti, che erano di guardia nel deserto con il fucile e soli tre proiettili. Raccontò, pure, che la scelta di anticipare la leva era dettata dal fatto che mentre la paga del soldato era di 20 centesimi al giorno in Libia riscuoteva ben 2 lire. Con i soldi che riuscì a mettere da parte, tornato a S. Angelo dopo la guerra si fece fare anche un vestito!
Lo stesso vestito con il quale si presentò a Roma, dove, dopo aver fatto domanda di arruolamento nel regio Corpo degli Agenti di P.S., come allora si chiamava la Polizia, avrebbe dovuto prendere parte ad un corso motociclisti che però non si fece mai, «forse perché non c’erano nemmeno le motociclette», ironizzava. Piuttosto che rientrare a Sant’Angelo, chiese aiuto a un autorevole dirigente dell’amministrazione della pubblica sicurezza, il quale gli segnalò che c’era un posto libero alla questura di Verona, città che scelse immediatamente, anche perché lì c’era anche la sorella Rosina, e dove arrivò il 2 gennaio 1931. Quando scese dal treno, raccontava poi ai familiari, fu accolto da una nebbia fittissima che non aveva mai visto in vita sua, né a Sant’Angelo né, tampoco, in Africa. Seppure il benvenuto non fu dei migliori, alle brume dell’Adige ben presto ci fece l’abitudine e addirittura la città di Giulietta gli regalò l’amore della vita. Infatti, pochi mesi dopo, il 31 ottobre, convolò a nozze con Ersilia Benini, di lui più giovane di cinque anni e dalla quale ebbe due figlie, Graziella e Paola, che tuttora vivono a Verona.
Ad inquadrarla nel tempo in cui visse ed operò, quella di Felice Sena è davvero una figura luminosa, la cui attività umanitaria è restata ignota per tutto questo tempo finanche alle figlie, che hanno potuto conoscerla solo grazie alle ricerche di Domenichini, confluite poi nel libro “Le ricerche hanno dato esito negativo – I giusti della Questura e le persecuzioni razziali a Verona, 1943-1945”, uscito agli inizi del 2021 per i tipi di Cierre Edizioni.
Le prime a restarne sorprese, infatti, sono state proprio loro. Racconta Paola, non senza emozione mista a gioia: «Mio padre era di una riservatezza assoluta, per cui mai nulla ci ha detto del suo lavoro ed in particolare della straordinaria vicenda di cui è stato protagonista. Durante gli anni di guerra, poi, di sicuro non era il caso che ne parlasse con noi; io e mia sorella eravamo bambine, pertanto c’era il rischio che avremmo potuto metterlo nei guai se ci fossimo fatte sfuggire qualcosa. Ma anche dopo – prosegue la signora Sena – papà ha ritenuto di dover tenere tutto per sé. Dubito finanche che la mamma sapesse, per cui scoprirlo ora è stato davvero incredibile e allo stesso tempo meraviglioso».
Quella di Felice Sena è una storia stupefacente per come è venuta fuori e per gli esiti che ha comportato. Questi i fatti. Dopo la caduta di Mussolini, nel biennio dell’occupazione nazista e della Repubblica Sociale Italiana, di cui Verona fu centro nevralgico, il vicebrigadiere Sena era stato assegnato alla Squadra politica di quella Questura con il preciso mandato di ricercare gli ebrei residenti in città e consegnarli alle autorità nazifasciste. Rifiutandosi intimamente di collaborare con gli aguzzini tedeschi e le camice nere fasciste, il vice brigadiere irpino aveva escogitato una singolare modalità per portare a termine il suo compito: ogni rapporto di indagine lo chiudeva con la frase rituale «le ricerche hanno dato esito negativo». Una formula tanto banale quanto risolutrice, che, come ha dimostrato Domenichini, si ripetette per decine e decine di volte, ad ogni ordine di rintracciare o arrestare un ebreo.
Questo il tenore del modulo prestampato, come si può leggere nei documenti dell’archivio storico della Questura scaligera:
«Verona, lì… Le indagini esperite per addivenire allo arresto (o al rintraccio) di … (generalità complete), di anni…, abitante in Via… N°… hanno dato esito negativo. Viene riferito che lo stesso si è allontanato da questa città per ignota località, fin dal bando di concentramento degli appartenenti alla razza ebraica. Per quanto riguarda al sequestro dei beni, provvede l’Ufficio Amministrazione beni ebraici. Il V. Brig. Sena Felice».
Senza alcun dubbio, la strategia messa in atto dal poliziotto fu un rischioso azzardo, se si pensa che Verona dall’inverno dal 1943 al 1945 era diventata una delle città più nazistizzate dell’Italia, poiché vi era la sede della famigerata “Sezione B4”, braccio operativo della Gestapo del Comando generale per l’Italia occupata, agli ordini del temibile maggiore Friedrich Boßhammer e dipendente direttamente da Adolf Eichmann, responsabile delle deportazioni dall’Europa occupata verso i campi di sterminio, nel contesto della cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica”, espressione eufemistica utilizzata dai nazisti per indicare la shoah degli ebrei. Nella città scaligera c’era anche la sede dello spietato Ufficio Affari Ebraici, deputato proprio al rintraccio e all’arresto delle persone di razza ebrea. Collocata vicino alle sedi del rinato governo repubblichino, che per questione di ordine logistico e di sicurezza erano state allocate sulla sponda bresciana del lago di Garda, Verona occupava un ruolo rilevante nella “topografia del terrore” che prese forma nei mesi dell’occupazione.
La «città di prigioni», come con un’angosciante espressione uno scrittore partigiano ebbe a definire il capoluogo scaligero, aveva assunto un aspetto spettrale che gettava un’ombra di angoscia sulla vita quotidiana.
E dunque, mentre l’ufficio politico della Regia Questura aveva censito nel 1942 circa trecento individui di origine ebraica residenti nel territorio veronese, alcuni funzionari decisero nel contempo di chiudere un occhio sulla loro presenza, ritenendo finanche che fosse il caso di avvisarli quando venivano programmate eventuali retate. Un’incombenza, questa, della quale si fece carico Sena, il quale nottetempo e in maniera oltremodo discreta se ne andava in giro per il ghetto ebraico. Come se non bastasse, negli uffici della polizia veronese si arrivò a dichiarare addirittura il falso sullo stato civile di queste persone; attestando, ad esempio, che talune di loro avevano contratto inesistenti matrimoni misti oppure che erano gravemente inferme. Attestazioni fasulle che servirono a dare agli ebrei tempo e modo di trovare un nascondiglio sicuro. Le poche che Sena riusciva a trovare, poi, erano persone che sapeva di non poter arrestare, in virtù delle leggi che prevedevano di ignorare gli ultrasettantenni o chi aveva contratto matrimonio misto o i figli di matrimonio misto.
Ha scoperto Domenichini che di tutti gli ebrei censiti nel ‘42 soltanto 34 furono deportati e morirono nei lager. Questi, però, non furono arrestati da Sena o dai suoi colleghi ma piuttosto dai famigerati squadroni delle SS o dalle miserabili milizie repubblichine; tutti gli altri si salvarono grazie all’ardore del vice brigadiere e dei pochi e fedeli uomini della polizia veronese che lo cooperavano. Infatti, anche se non è stata trovata una prova precisa, deve supporsi che il sottufficiale irpino abbia potuto godere della copertura dei suoi diretti superiori, Guido Masiero e Antonino Gagliani, che probabilmente non dovevano essere del tutto all’oscuro della singolare modalità operativa messa in atto da Sena.
Pare di vederlo il poliziotto santangiolese, con la sua folta chioma nera, “alla mascagna” come si usava in quel tempo, e il passo sicuro, aggirarsi tra i vicoli e le vecchie strade di Verona, mentre impettito nella sua uniforme ordinaria grigio ferro, con i gradi di vice brigadiere in bella vista sulle maniche, “dà la caccia” agli ebrei. E allo stesso tempo colpisce l’immaginazione allorché, arrivato nelle loro abitazioni, piuttosto che tirare fuori i ferri o addirittura la rivoltella d’ordinanza prende da una tasca la penna e uno stampato in parte già precompilato con la vecchia macchina da scrivere della questura e scrive la formula che vale una vita: “le indagini hanno dato esito negativo”. Tutto questo mentre, nel suo inconfondibile accento del Sud, aveva già invitato i “ricercati” ad allontanarsi velocemente per rifugiarsi in luoghi più sicuri.
Alla fine ben 266 ebrei potettero salvarsi grazie all’umanità di quei poliziotti, ed in particolar modo di Felice Sena che maggiormente si era esposto ai rischi di essere considerato pure lui un nemico dei tedeschi. Una condotta che ci fa interrogare su quanto siano stati casuali, fortunosi, rocamboleschi, inverosimili eppure reali i salvataggi di tanti cittadini ebrei.
Nulla potettero fare né Sena né i suoi comprensivi superiori, invece, per impedire i rastrellamenti che i tedeschi e i fascisti compirono nei riguardi dei partigiani e di quanti altri ritennero nemici del Terzo Reich e della Repubblica Sociale Italiana, contro i quali si scatenò la loro furia persecutoria. A ricordo di tanto orrore, sulla facciata dell’edificio Ina che a Verona ospitava il comando della Gestapo fu apposta una lapide sulla quale si legge:
«In questo edificio / maturarono gli ordini funesti / delle SS. tedesche / e dei loro servi fascisti / qui / furono carcerati seviziati uccisi / uomini d’ogni fede politica / d’ogni classe sociale / umili ed insigni / che lottarono per la dignità umana / per la liberta e per l’onore d’Italia. / Da questo soggiorno estremo / deportati / molti fratelli lasciarono / il suolo della patria / per i campi di prigionia e di eliminazione / senza ritorno».
Una lapide che lascia capire, casomai ce ne fosse bisogno, quanto quello di Sena sia stato un atto di grande coraggio, se non proprio di puro eroismo.
Peccato che le carte di archivio non abbiano restituito anche le voci di chi si sentì beneficiato dal comportamento di Felice Sena. Per comprenderlo, però, basta far ricorso alle pagine dei tanti libri o alle immagini dei film che hanno ricostruito quei giorni con un occhio alla storia e un altro all’umanità; e con essi ricordare nomi come quello di Giorgio Perlasca o di Gino Bartali, oltre a quello del già citato Giovanni Palatucci e di quanti, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Una resistenza non armata, vissuta quasi sempre nell’ombra ovattata della riservatezza, è stata quella di questi “Giusti”. Al pari della condotta di Felice Sena, il cui comportamento edificante è restato noto solo a lui, senza che ne abbia mai voluto menar vanto. Una qualche traccia, però, l’aveva lasciata.
Scavando tra le pieghe della loro fanciullezza le figlie del vice brigadiere, fortemente emozionate per le sorprendenti notizie uscite dagli archivi veronesi, hanno rinvenuto alcuni episodi che vanno in direzione della tacita riconoscenza della comunità ebraica di Verona per il loro genitore: «Rammento le passeggiate che da piccole facevamo in centro. Quando io e Graziella – ha ricordato Paola Sena – andavamo a passeggio ed eravamo nei pressi della sinagoga, tutti uscivano a salutare papà e ci riempivano le tasche di caramelle. Se provavamo a chiedergli il perché, lui sminuiva e rispondeva che erano degli amici». Brandelli di memoria che solo ora danno un senso a quelle scene, sulle quali mai c’è stato alcun commento da parte del padre.
Cessata la guerra, Sena continuò a indossare l’uniforme della polizia fino a conseguire il grado di Maresciallo di prima classe. La sua solerzia gli valse, nel 1953, la medaglia d’argento al merito di servizio. Morì a Verona il 15 novembre 1996 e lì fu seppellito, nel cimitero monumentale della città.
A distanza di quasi trent’anni da quel tempo di silenzioso eroismo, quando ormai Felice Sena era solo un pacifico pensionato dopo aver lasciato la polizia con il grado di maresciallo, i suoi trascorsi fino ad allora tenuti discretamente celati stavano per venir fuori e, anzi, c’era il rischio che per lui diventassero addirittura un incubo. Il sottufficiale di polizia, infatti, fu chiamato a deporre in qualità di testimone nel corso di una delle sessioni secondarie del celeberrimo “Processo di Norimberga”, e più esattamente in quella iscritta a registro come “Procedimento principale contro Friedrich Boßhammer”.
Davanti alla corte internazionale, il 25 febbraio 1972, l’ex sottufficiale di polizia fu chiamato a raccontare la sua versione dei fatti in merito alla deportazione di alcuni ebrei veronesi, in particolare sull’arresto di Cesare Verlengo, classe 1881, che fu condotto dapprima a Fossoli, il campo nazionale della deportazione razziale, e quindi in quello di sterminio di Auschwitz dove poi morì il 28 ottobre 1944.
Come si legge sul verbale della deposizione davanti alla corte internazionale, Sena affermò che, seppure la vicenda gli fosse stata nota, «era restato completamente sorpreso di sentire che questo vecchio signore era stato arrestato e portato via. Questo non era stato fatto da lui o dai suoi uomini; gli agenti di polizia italiani non avevano mai arrestato ebrei. Inoltre non aveva mai accompagnato i trasporti in autobus di ebrei a Fossoli. Non conosceva il campo di Fossoli, nemmeno come campo italiano».
Poiché il Presidente del Tribunale aveva paventato una sua qualche correità, il sottufficiale fece mettere a verbale che la vicenda Verlengo «era stato un caso particolarmente eclatante, del quale aveva voluto informare i suoi superiori attraverso il suo rapporto», dopo di che «non seppe cosa fosse successo in risposta al suo rapporto e che solo dopo la guerra aveva saputo dalla signora Verlengo che suo marito non era tornato».
Ci pensò il collegio giudicante a dirimere qualche ombra che pesava sul caso e chiarire definitivamente «che non c’erano indicazioni che facessero apparire il testimone come un complice di omicidio»; conseguentemente la Corte decise «che il testimone doveva essere rilasciato dalla custodia [nella quale era venuto momentaneamente a trovarsi, e] di comune accordo, il testimone è stato rilasciato con i ringraziamenti alle ore 14:34».
Insomma, dopo aver scampato la ritorsione tedesca durante le sue azioni di depistaggio, Felice Sena corse il rischio di vedersi accollare le atrocità che erano state solo dei nazisti e contro le quali aveva opposto il suo silenzioso eroismo.
La scoperta di Domenichini, nel cui libro sono raccolte le gesta del poliziotto, ha avuto grande risonanza a Verona e ha suscitato grande interesse pure a Sant’Angelo dei Lombardi, da dove il giovane Felice Sena era partito anni prima per assecondare la sua aspirazione di entrare in polizia.
Nella cittadina altirpina, per onorarne la memoria e far conoscere a tutti la figura del suo valoroso figlio, il Comune, il 2 Giugno 2021 ha voluto poi collocare un cippo in pietra in un parco urbano che da allora si chiama Giardino dei Giusti “Felice Sena”.
Un’ultima considerazione: la scoperta della condotta eroica di Sena invita a esercitare la memoria come anticorpo contro l’oblio, per contrastare la negazione e le falsificazioni del passato che paiono essere sempre più in atto nel nostro Paese. Un obiettivo costante e una scelta di vita, perché per i giovani di oggi il rischio è che conti solo il presente, che non ci sia né ieri né domani. «Nella persuasione – dice lo storico Guido D‘Agostino – che avere memoria, poter ricordare significa avere accesso a un bene, avere a disposizione un patrimonio irrinunciabile. […] Diritto alla memoria, dunque, in primo luogo per chi non appartiene, né potrà mai appartenere, alla schiera dei protagonisti, dei testimoni».
Cosicché vale la pena ricordare le parole di Liliana Segre: «La scelta va fatta tutti i giorni, tutti i momenti. Non si può far passare un giorno senza scegliere da che parte stare». Insomma dovrebbe essere ogni giorno il “Giorno della memoria”, per affermare i valori della democrazia e per contrastare l’indifferenza di cui si alimenta l’orrore. E “Indifferenza” è proprio la parola che, a perenne monito, la senatrice a vita sopravvissuta al campo di sterminio ha voluto fosse scolpita all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, vicino al famigerato “Binario 21” della Stazione Centrale, da dove partirono i carri bestiame carichi di donne, uomini e bambini diretti ai lager.