Il racconto ha vinto il primo premio della sezione narrativa al Concorso Nazionale di Poesia e Racconti “Carlo Gesualdo il Principe dei Musici”

Francuzzo andava con passo ciondoloni e con l’immancabile sigaretta tra le labbra, zigzagando come se non seguisse un preciso percorso tra i ciottoli squadrati dell’antico selciato. Proseguiva scansando quanti incrociavano i suoi passi, anche se nessuno pareva dargli retta; per naturale diffidenza, forse, o per la calura che riempiva gli spazi della piazza e finanche ogni anfratto delle menti, là dove i pensieri non riuscivano a scansare il martellare dei raggi del sole che già da alcuni giorni opprimeva le giornate.

Passò davanti al limite di un vicolo, movimentato da donne che ragionavano di mariti viziati e di piatti da preparare, e poi in mezzo a bambini che nemmeno si accorsero dell’intruso, intenti com’erano a contendersi una palla mezza sgonfia ma ancora buona da prendere a calci.

Quale fosse la sua meta era chiaro solo a lui. A lui e a chi da tempo era informato su quel luogo. A lui e a chi conosceva quel passante fin da quando era un bambino, impertinente e sordo ai richiami della mamma.

Quando infine pareva che il suo passo si fosse orientato verso una chiara direzione, Francuzzo si fermò davanti a un portoncino. Proprio di fianco, una targa minuscola indicava che lì c’era l’ufficio comunale dove si poteva cacciare la carta d’identità o la fede di nascita. Era sabato mattina, però, e l’ufficio era ordinariamente chiuso. Questo, però, non bastò a farlo desistere dal bussare alla porta.

Il suono che insisteva tenace si sentiva forte fino in cima alla parte alta della piazza, amplificato anche dall’aria rarefatta di quel giorno d’agosto.

Fu allora che Maculata si affacciò alla finestra e lo vide. Lo conosceva bene e non fece fatica a richiamare la sua attenzione.

«Francuzzo, che cerchi… non vedi che è chiuso. Torna lunedì se hai bisogno, altrimenti vai a casa del sindaco!».

Quest’ultima cosa Maculata la disse giusto per rassicurare l’uomo che aveva ripreso a picchiare contro l’uscio con la mano aperta e poi finanche con un pugno. Senza che il portone si aprisse, ovviamente.

«Apri, mamma, aprimi!», prese a dire Francuzzo.

Un’invocazione supplichevole che restituì alla memoria di Maculata i visi, i nomi, i giochi, i giorni e le sere di un’infinità di anni prima, quando la piazza era affollata di bambini, di donne sull’uscio di casa a spettegolare, di canonici intenti a biascicare astruse preghiere, di bottegaie che ritiravano la roba, di carretti carichi dei frutti di stagione, di arrotini e ciabattini, di contadinotte che lasciavano il paese con una cesta sospesa sulla testa e un paio di scarpe  tra le mani, di una fontanella che lasciava correre acqua fresca.

Erano giorni e sere di tanto tempo fa; di quando pochi sassolini tondi, lisciati dai flutti dell’Ofanto, valevano quanto una gemma preziosa per chi con quelli avrebbe poi accettata la sfida nell’intramontabile gioco delle cinque pietre.

Quanti anni erano passati? Quaranta o forse cinquanta. Chi poteva dirlo? Avrebbe dovuto fare un po’ di conti, Maculata, mettendo assieme i suoi fatti e quelli del paese per cercare appigli a cui aggrappare le tessere di un mosaico sconvolto da stagioni non sempre liete.

Tra tanti visi che in un amen presero a roteare nei suoi occhi come finestrelle di una slot machine, la memoria si bloccò sul volto della mamma di Francuzzo. Maculata rivide così la donna, minuta più per lo scarno mangiare quotidiano che per una fisicità già di per sé anemica. Se la raffigurò mentre con la mano trascinava un bimbetto ostinato, che puntava a terra i piedi nel tentativo di evitare il rientro a casa. La stessa dove ora quel bimbo fatto uomo stava ora continuando a bussare, incurante del tempo passato e delle pietre stravolte da eventi più grandi di lui, più grandi di tutti. La stessa casa, con gli stessi montanti e la stessa porta che stava martoriando con le nocche delle mani, coi palmi, coi pugni ed ora pure con qualche calcio bene assestato.

«Apri, mamma, sono io… Ma perché non mi vuoi?».

Maculata sapeva che non avrebbe smesso e che anche questa volta le toccava scendere e andare a sentire le ragioni di Francuzzo.

Pur esitando si decise a lasciare la frescura della sua stanza e a immergersi nella calura che infuocava la piazza antica, dove i raggi riverberavano il biancore delle pietre, obbligandola a pararsi gli occhi aprendo il palmo della mano sulla fronte. Verso chi andasse incontro non le era ancora chiaro: se all’uomo di oggi, trasandato e svanito, o al bambino di un tempo, al quale avrebbe voluto dire, se solo avesse avuto coraggio, che sua madre era morta da tanto. Morta e sepolta, senza curarsi di un figlio lasciato in balia di pensieri incompiuti, di familiari persi, di una comunità non più adusa alla condivisione.

Scese Maculata, ma non riuscì di dare compiutezza al suo intento, poiché Francuzzo, ciondolando, aveva già ripreso il suo percorso tra i ciottoli della piazza. Diretto verso una meta indefinita, ma solo per chi osservava senza sapere nulla di lui. Verso una direzione vaga come il suo presente, segnato da un passato che ha squassato le menti assieme alle case.

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Michele Vespasiano

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