E la tradizione si rinnova

Il pomeriggio era freddo ma asciutto. All’orizzonte si vedeva ancora una lunga striscia rossa, ultima consegna di una giornata soleggiata. Rara per quei primi giorni di dicembre che, stando alla regola, avrebbe dovuto già regalare qualche fiocco di neve.
Nella piazza vecchia del paese sulle mura delle case risuonavano ancora le voci dei ragazzini che, dopo aver assolto il dovere dei compiti a casa, si rincorrevano giocando a guardia e ladri, e quelle stridule delle bambine, impegnate nel gioco della corda. Frettolosi passanti lasciavano intendere che la sera era incipiente. Del resto già da un po’ era riecheggiato per tutta la piazza e i vicoli vicini il suono delle sbarre delle finestre del vicino carcere, che il guardiano controllava alle quattro in punto, percuotendole con una mazza di ferro. Un rumore squillante, difficile da ignorare.
Altri ragazzi, invece, erano in giro per la cerca della legna che serviva a impalare i falò della vigilia della Vergine Immacolata. Una tradizione che si perde nella notte dei tempi, forse addirittura ai riti pagani del fuoco. Immagine dell’aggregazione sociale e segno distintivo di una comunità che non dimentica le sue tradizioni, ma che le porta con sé da secoli e le trasmette alle generazioni future.
«Maria, dagli tre fascine per devozione!».
La voce arrivò perentoria come un ordine a cui non si poteva né doveva derogare. D’altronde don Alfredo aveva fatto il maestro per una vita intera ed era abituato a farsi obbedire, anche se talvolta aveva dovuto far ricorso a una solida ma flessibile bacchetta di castagno. Strumento di punizione per alunni svogliati o, peggio ancora, indisciplinati, a cui una spalmata secca sulle mani avrebbe ricordato quali fossero i loro doveri.
Maria, che aveva raccolto l’ordine in silenzio, non si sognò di derogare nemmeno quando la mamma, l’anziana signora Erminia, aveva suggerito che forse due fascine andavano bene lo stesso. Tre fascine aveva detto don Alfredo e con tre fascine si presentò, tirandosele dietro lungo la scala che scendeva al piano terra. Né una di più né una di meno. Tre fascine leggere, ramaglie di quercia lasciate a terra dopo il taglio degli alberi perché le raccogliessero i figli dei coloni e le affastellassero tra loro.
I tre ragazzini che avevano bussato alla porta restarono delusi dalla modestia di quelle frasche; si aspettavano che almeno fossero robuste, con rami nodosi e invece erano miseri fuscelli. Buoni giusto per la prima vampa non certo per dare corpo e sostanza al falò per la festa del fuoco che in paese, da sempre, chiamano “la Maronna re li fafagliuni”.
Quel pomeriggio la raccolta della legna che Rocco, Giuseppe e Carmine stavano facendo non aveva prodotto granché; il cumulo che già da qualche giorno andavano ammassando là nel vicolo non era più alto di una vecchia sedia impagliata, la stessa che avevano trovato in una discarica non molto lontana da casa e che subito avevano recuperato, immaginando che, nonostante fosse restato ben poco della seduta di paglia, avrebbe fatto una bella fiamma e tenuto il fuoco per un po’. Per il resto c’erano tronchi marci, assi del soffitto di una casa diruta, paletti e delle tavole sbilenche sottratte in qualche cantiere, cassette della frutta, e cartoni. E poi mazze di sambuco, tagliate dalle siepi che fiancheggiavano la strada dietro le mura del paese. Insomma, tutta roba recuperata andando in giro per la periferia del rione.
«Ci vogliono i tronchi!», disse Carmine. Ma, ad averceli, sarebbero andati bene anche dei cepponi, come quelli che si mettono nel camino la notte di Natale, «che sono anche più facili da trasportare».
Un rapido confronto servì al terzetto per individuare chi nel rione usava il camino o la stufa. Le famiglie che si riscaldavano con i termosifoni a carbon fossile furono subito escluse dal giro della cerca. Si sarebbe voluto escludere anche i due forni, poiché la legna a loro serviva per lavorarci.
«Perché mai dobbiamo rinunciare a chiedere? – insistette Rocco – un tentativo lo farò io. Conosco bene i proprietari dei forni, ai quali ogni tanto faccio qualche piccolo servizio, e forse a me non diranno no. Che ci costa provare?».
Ineccepibile la proposta del ragazzino, al massimo se ne sarebbero tornati a mani vuote. E d’altronde non sarebbe stata neppure la prima volta. Già Vicienzo li aveva scacciati in malo modo, dicendo che non aveva tempo da perdere con dei mocciosi. Sì, li aveva proprio definiti mocciosi. Hai voglia a dirgli della tradizione, della Madonna che vede e provvede, del fuoco che avrebbe potuto prendere per devozione. Fu irremovibile, anzi chiuse così bruscamente la porta vetrata che lo sbotto nervoso fece addirittura cadere il cartello dove c’era scritto “Sabato Trippa”, piatto speciale della modesta osteria che Vicienzo gestiva con la moglie e la figlia.
Le più generose furono le vecchie signorine che abitavano nell’antico palazzo con le pietre bugnate, vicino alla chiesa grande. Regalarono ai tre ragazzini tanti di quei ceppi che tenevano depositati in un sottano poco lontano. Erano davvero tanti che Giuseppe dovette andare a prendere una carriola da nonno Lisandro; aveva una ruota un po’ sgonfia ma andava bene lo stesso per trasportare tutta quella legna. Legna secca, anche fin troppo secca a giudicare da quanto fossero leggeri i ciocchi e dalla polvere che alzavano ogni volta che ne prendevano uno.
«È legna dell’anno scorso che non ci serve più», chiarì una delle anziane padrone del palazzo, comparsa con un bizzarro cappello in testa e uno scialle multicolore, fatto, evidentemente, con tanti avanzi di lana. «Meglio bruciarla in onore della Madonna!».
A vedere quanta legna avevano avuto, i ragazzi in qualche modo si sentirono in colpa. Ricordarono quante volte erano passati davanti al grosso portone di quel palazzo e avevano bussato con il pesante battente di bronzo solo per fare uno scherzo alle vecchiette. Uno scherzo assolutamente condiviso tra i ragazzi del rione, ma che ora, però, li faceva sentire in torto.
***
La sera del 7 dicembre arrivò quando ancora la cerca della legna non era finita. Si sarebbe potuto trovare altri ceppi, ancora delle assi ma oramai non c’era più tempo. I ragazzi avrebbero voluto avventurarsi anche nel dirupo boscoso che era alla fine della piazza. Un posto misterioso che un tempo era un nauseabondo immondezzaio, dove solo pochi coraggiosi tra i ragazzi del rione sapevano avventurarsi; un posto che aveva inghiottito tanti palloni, per la dannazione di chi giocava nei paraggi.
Nella piazzetta, a guardarlo quel cumulo di legname sembrava davvero enorme. Ma quando mastro Antonio la accatastò con sperimentata perizia, dandogli la tradizionale forma conica del falò, i giovanissimi cercatori di legna non riuscirono a nascondere un moto di delusione. Avrebbero voluto che fosse il più alto del territorio, invece a mala pena superava l’arco di pietra dell’ingresso del vicino palazzo.
«Saremo sfottuti da tutti i ragazzi del paese», bofonchiò Giuseppe, ricordando che aveva scommesso con Vincenzo due giornalini di Capitan Miki e il Grande Blek.
Le parole di Giuseppe non passarono inosservate a mast’Antonio che, presi da parte i ragazzi, disse loro che sarebbe stato facile fare un falò altissimo, però poi il fuoco sarebbe durato un niente.
«L’importante non è quanto è alto – spiegò – ma quanto dura. È questa la vera scommessa da fare. È questo il vero omaggio alla Madonna: avere un fafaglione che dura molte ore non che finisca in un poco tempo. Venite che vi spiego meglio». E con questo si accostarono tutti al cumulo già pronto per essere acceso.
«Sotto sotto, intorno ad un palo robusto che faccia da sostegno, vanno messi i pezzi di legna più secchi, assieme a un poco di paglia e a tavolette sottili. Serviranno a far prendere la fiamma che poi, lentamente, attaccherà i ceppi più robusti che ho messo sopra, uno strato dopo l’altro. In cima a tutto ci saranno i pezzi di legna che non possono essere accatastati, come quella vecchia sedia spagliata che avete fatto bene a portare e quel girello rotto».
***
La sera era ormai avanzata e mastro Antonio continuava a girare intorno al fafaglione, aggiustando qua e là i rami che fuoriuscivano troppo, affastellando nel miglior modo i cepponi e assicurandosi che tra l’uno e l’altro ci passasse un filo d’aria necessaria a far respirare il fuoco.
«Se stanno ammassati uno sull’altro la fiamma viene soffocata e il fuoco muore. È una cosa che dovete imparare perché poi toccherà a voi montare il fafaglione, per non far morire la tradizione», spiegò ai tre ragazzini che subito si appassionarono, sentendosi investiti di una responsabilità.
«A che ora potremo accenderlo?», chiese Rocco, che mostrava una certa impazienza.
«Abbiamo già preparato i fogli di giornale accartocciati», lo sostenne Carmine.
«Un’altra cosa che dovete imparare – disse mastro Antonio – è che il falò si accende quando finisce la messa. Stasera è l’ultimo giorno della novena alla Madonna e dobbiamo aspettare che la gente esca dalla chiesa. Anzi, perché non siete andati anche voi alla funzione?», chiese con un’aria di rimprovero, che in verità non fece molto colpo sui ragazzini, già tutti presi dal rito del fafaglione.
Quando alla fine del vicolo vide comparire la mamma con Maria e Tettina, Giuseppe realizzò che la messa era finita e che finalmente si poteva dare fuoco al falò.
«È finita, è finita la messa…», corse a dare l’avviso che tutti gli altri aspettavano.
Allora mastro Antonio tirò fuori un fiammifero da una scatoletta e diede fuoco a un cartoccetto di giornale che poi avvicinò alla paglia che era alla base del cumulo. Ben presto le fiamme cominciarono a prendere corpo, allargandosi man mano tutto intorno al fondo della catasta di legna.
«La Maronna c’accumpagna!», disse ad alta voce, accompagnando l’invocazione con un’Ave Maria per chiedere la protezione dell’Immacolata su tutti quelli del rione e su quanti si erano impegnati per impalare il falò.
Intanto, piano piano, tutti i vicini si erano raccolti attorno al fuoco. Pronti a fare commenti se la fiamma crepitava, se era troppo gialla, se era rossiccia, se quel ceppo stava cadendo, se invece bisognava smuoverlo per farlo accendere bene, ecc.
Anche questo è tradizione!
Nel frattempo i bambini più piccoli accendevano le fiammelle o i bengala che fiammeggiavano lingue multicolori, mentre i ragazzi più grandi avevano cominciato a far scoppiare i tric- trac che impaurivano le bambine e le signorinelle. Piccole e grandi detonazioni che avevano eco in tutto il paese.
Anche questo è tradizione!
A tarda sera cominciarono a comparire una catenella di salsicce e una mezza sporta di patate. Tutta roba da cuocere sotto la brace, accompagnandola con un buon bicchiere di vino rosso regalato dall’oste che aveva la taverna all’angolo della piazza.
Sollecitato da tanti, Angiolino tirò fuori l’organetto… la serata era così giunta al culmine!
Anche il finale era scontato, ognuno avrebbe portato a casa su una paletta o in un pentolino un po’ di brace da versare nel proprio camino o da lasciare consumare nel corso della notte.
L’appuntamento era per l’anno successivo per continuare la tradizione della festa della Madonna re li fafagliuni!

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Michele Vespasiano

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