A scuola ci arrivai in taxi

Il 26 settembre 1973 ero a Roma, in una pensioncina dalle parti della stazione centrale. Mi ci avevano portato un corso di formazione e le circostanze della vita. Di quelle che si aprono sulle speranze e le opportunità lavorative di ragazzi ventenni.

In quei tempi a Roma ci andavo di frequente e la conoscevo abbastanza. O almeno riuscivo a muovermi con una certa disinvoltura per la città, non come ora che ci manco da secoli e non saprei come prendere un pullman o dove porta la metropolitana.

Era bella Roma in quegli anni. E poi quei giorni di fine estate le regalavano il fascino che l’hanno resa magica agli occhi di scrittori, attricette e cineasti. Il Tevere era biondo al tramonto e sugli alberi solo qualche foglia appena ingialliva. Le macchine scorrevano fluide. E un piatto di cacio e pepe era una libidine, al pari di una passeggiata a Villa Borghese in compagnia di un’amica.

Nella sala in comune della pensione il televisore era sintonizzato sul telegiornale della sera, allora diffuso rigorosamente in bianco e nero dall’unico canale della Rai. Una notizia su tutte richiamò la mia attenzione, anzi un volto: quello della mitica Nannarella. L’accompagnava la voce asettica del commentatore: «Oggi pomeriggio è morta in una nota clinica romana l’attrice Anna Magnani. Aveva 65 anni e da tempo era malata di tumore». Me ne addolorai. Era un’attrice che mi piaceva, ricordai la scena straziante di “Roma, città aperta”; ma soprattutto pensai che piaceva a mio padre, che ne apprezzava la bravura e che certamente ne sarebbe restato addolorato.

In verità la perdita di Nannarella ha poco a che vedere con quanto ho in animo di raccontare. Mi è servito semplicemente per dire come talvolta i fatti, anche assolutamente slegati tra loro, si fondano assieme restando imprigionati nei cassetti della memoria.

Accantonata la notizia della morte dell’attrice romana, quella calda sera di settembre mi decisi a fare una cosa che avevo in animo di fare fin dalla mattina: telefonare a un amico, segretario in una scuola del milanese, per chiedergli se per caso avesse notizie circa la mia nomina in ruolo come insegnante di scuola elementare. Una nomina che attendevo già da qualche settimana e che invece stentava ad arrivare. Temevo – e ne ebbi poi ragione – che la convocazione del Provveditore di Milano per scegliere la mia prima sede di servizio fosse andata smarrita tra i tanti recapiti più o meno ufficiali che avevo comunicato all’ufficio scolastico meneghino.

Singolare, tra le tante mie vicissitudini, anche questa. Ufficialmente ero residente a Cologno Monzese, Piazza De Gasperi n. 1, allo stesso indirizzo del Municipio di quello che solo pochi anni dopo sarebbe diventato il baricentro della televisione berlusconiana. Di fatto, però, vivevo a Bergamo, dove avevo preso una camera ammobiliata nella centralissima Via XX Settembre, assieme a mio fratello e altri amici da poco assunti come ‘coadiutori meccanografi’, incaricati cioè di far funzionare dei cassoni di metallo grossi quanto una scrivania; aggeggi che ancora non si ebbe l’ardire di chiamare “computer”. Infine, e questo non è poco, la mia vita era ancora interamente aggrappata a Sant’Angelo dei Lombardi, il mio paese natio, e alla mia modesta casa di Via Magenta n. 6.

Dove fosse finito il decreto di nomina del Provveditore Tortoreto non l’ho mai saputo, né seppero dirmelo i funzionari dell’ufficio. Fatto sta che, se “una telefonata ti salva la vita”, quella che feci quella sera da una cabina nella Stazione Termini servì per sapere che l’indomani mattina sarei dovuto trovarmi in fila per scegliere la sede e ricevere la mia prima nomina di ruolo. Già l’indomani mattina, capite?

Il disorientamento per quella notizia, arrivata in quel modo così inaspettato, mi fece considerare la portata miracolosa di quella telefonata e ancor più della decisione di farla: non mi fossi presentato in provveditorato sarei stato considerato rinunciatario, con tutto quello che avrebbe comportato.

Seduta stante m’informai dei treni che avrebbero potuto farmi giungere per tempo a Milano. Qualcosa c’era… avrei viaggiato tutta la notte ma ce l’avrei fatta!

Lesto rientrai nella pensione per riprendere la mia roba e partii. Treno e metropolitana mi consentirono di stare negli uffici del Provveditorato agli studi in perfetto orario. Anzi con sufficiente anticipo. Cosa che mi permise di dare una scorsa veloce all’elenco delle sedi scolastiche disponibili per la scelta e ai comuni dov’erano localizzate. In verità ce n’erano molte e in paesi che a me non dicevano nulla. Qualunque di esse mi sarebbe andata bene. Avevo una sola priorità: se fosse stato possibile avrei preferito trovare una sede facilmente raggiungibile da Bergamo, dove sarei voluto restare. Fu così che, anche con l’aiuto di un amico che buttai letteralmente giù dal letto, selezionai mentalmente tutte le località dove ricorreva il nome del fiume Adda che, chissà perché, pensai segnasse il confine con la provincia bergamasca. Vado a memoria: Cassano d’Adda, Castelnuovo d’Adda, Pozzo d’Adda, Trezzo sull’Adda, Vaprio d’Adda… e qualche altro ancora.

Scelsi il primo per una ragione ben precisa: mi ricordava Cassano Irpino, un paese della mia terra. Ne fui contento! Fossero passati decenni, il nome di quel paese brianzolo mi sarebbe restato chiaro nella testa.

Il giorno dopo ebbi modo, ahimè, di scoprire che i collegamenti con il capoluogo orobico non erano compatibili con l’orario scolastico che avrei dovuto osservare. Era un bel problema! Mi toccava trovare una soluzione diversa da quella che avevo immaginato, ma questo potevo farlo solo arrivando alla scuola che mi era stata assegnata e che tra l’altro, appurai, non era neppure nella sede centrale ma a Cascine San Pietro, una frazione di Cassano d’Adda, il paese (questo lo seppi dopo) del mitico Valentino Mazzola, lo sfortunato capitano del Torino morto nella sciagura di Superga. Una vera gloria per il paese dove mi stavo accingendo a prendere servizio e dove potetti arrivare solo a bordo di un taxi preso a Bergamo. Sì, avete inteso bene, arrivai a scuola in taxi!!!

Mi costò una cifra esorbitante, e tra l’altro non avevo ancora preso il mio primo stipendio!

Urgeva trovare una soluzione se non volevo dissanguarmi oppure mandare a monte l’idea di continuare ad abitare nella Città dei Mille. La soluzione la trovò una collega di Vaprio (peccato che non ne ricordi il nome): nel suo paese ci sarei potuto arrivare facilmente con il pullman, uno spernacchiante autobus snodato, e poi avrei proseguito con lei che a scuola ci andava con la sua auto, una Fiat 500L colore giallo Positano. Una macchina uguale, anche nel colore, a quella della ragazza che avevo lasciato a Sant’Angelo e a cui avevo promesso di tornare prima possibile.

La scuola di Cascine San Pietro era in una palazzina costruita negli anni sessanta. Un po’ malandata ma con tutti i comfort: un vasto giardino che serviva per il tempo della ricreazione e anche per i giochi all’aperto, un ampio locale a piano terra per fare ginnastica e l’alloggio per la bidella (una simpaticissima signora che prese a ben volermi fin da subito e che qualche volta, quando capitavano riunioni o incontri pomeridiani, mi tenne finanche ospite a pranzo). Trovai un gruppo di colleghi ben affiatati, anche perché era già da qualche anno che stavano assieme. Oltre alla mia “autista personale” (fidanzata tra l’altro con un carabiniere gelosissimo, che vedeva con malanimo il fatto che dovesse viaggiare con me), c’era Laura, la capogruppo responsabile del plesso, e un altro collega di origine siciliana con i quali legai subito. Legai tanto che spezzai una consuetudine che mi parve un’enormità: quella di darsi del lei. No, non va bene… irruppi subito con il tu a tutti. Ci sentimmo tutti meglio!

Anche i miei alunni – mi pare di ricordare che fosse una terza – erano simpatici, per lo più figli di operai nelle fabbriche della zona, di operosi contadini o di capaci artigiani di quella popolosa periferia di Cassano d’Adda. Un’allegra e rumorosa brigata di quindici monelli, com’è giusto che siano dei ragazzini di otto anni, che solo il pronunciato accento brianzolo differenziava da quelli che avevo lasciato nelle aule di Sant’Angelo. Una ragazzina si legò molto a me, coprendomi in continuazione di baci e di abbracci; portava i codini e aveva una disabilità cognitiva che non le impediva, però, di essere un vulcano di simpatia per tutti, non solo per il suo nuovo maestro.

Conservo gelosamente una foto di quella classe. Stiamo in giardino, sudati per non so quale gioco stessimo facendo ed io ho una chioma folta e riccia… anche questa, ormai, restata solo un ricordo!

Ci sono tornato non molto tempo fa a Cassano d’Adda. Non ho saputo orientarmi. Un dilagare di palazzoni, di negozi, di fabbriche, di strade si è mangiato la campagna e con essa la vecchia palazzina della scuola di Cascina san Pietro, restata con qualche nome e pochi volti nella mia arrugginita memoria.

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Michele Vespasiano

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