Ci sono delle espressioni ricorrenti nel racconto della Passione di Gesù che, per il loro incredibile potere evocativo, sono state raccolte da artisti di ogni tempo che le hanno mutate in delle vere e proprie locuzioni sostantivate.
Penso, ad esempio, alla beffarda presentazione che Pilato fa alla folla del Cristo flagellato e coronato di spine: «Ecce Homo»; un’interiezione divenuta poi titolo per numerosissime opere pittoriche, dal dipinto di Mantegna a quello di Antonello da Messina, per citarne solo alcuni, oppure alla tela solo di recente ritrovata in Spagna e attribuita dagli studiosi a Caravaggio.
Analoga sorte è toccata ad un’altra perentoria esclamazione, questa volta uscita dalle labbra del Cristo risorto e indirizzata a Maria Maddalena: «Noli me tangere».
L’evangelista Giovanni racconta che Maria di Magdala, all’indomani della crocifissione, fu la prima a recarsi dov’era stato deposto il corpo di Gesù. Portava con sé bende e oli per le usuali pratiche dovute in onore dei defunti, ma restò enormemente addolorata per aver trovato il sepolcro vuoto; una circostanza che potettero accertare pure gli apostoli che lei era riuscita ad avvisare. Quando questi andarono via Maria Maddalena si trattenne in lacrime ai piedi della tomba. Fu allora che si sentì interpellare. Essa, non avendo riconosciuto Gesù e pensando che chi l’aveva chiamata per nome fosse il custode del giardino, gli disse: «Se hai portato via tu il corpo del mio Maestro, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Solo quando Gesù la chiamò per nome essa lo riconobbe e lo invocò con il nome ebraico di Rabbunì, che significa Maestro.
Anche se l’evangelista Giovanni non aggiunge altro, è lecito credere che a questo punto la Maddalena deve aver fatto il gesto di abbracciarlo, ma Gesù le intimò di fermarsi. “Non mi toccare” è la traduzione dal latino, recuperata dalla Vulgata del Vangelo secondo Giovanni (20,17); una più pertinente interpretazione esegetica, però, l’ha meglio intesa con “Non mi trattenere”, che si collega più adeguatamente con il prosieguo dell’esortazione di Gesù: «nondum enim ascendi ad Patrem meum», «non sono ancora salito al Padre mio». Una perentorietà che derivava dalla considerazione che la sua dimensione di risorto lo faceva appartenere ormai solo al Padre.
«Noli me tangere», è poi diventato un imperativo categorico che ha costituito un tema ricorrente nell’iconografia dal Medioevo al Rinascimento e oltre, ispirando diversi pittori, dal grande Giotto, in un affresco nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1306) o nella Basilica inferiore ad Assisi (1320), a Duccio di Buoninsegna (1308), al Beato Angelico (1441), a Correggio (1525) e a Paolo Veronese (1570), per arrivare fino alle tele dei “napoletani” Battistello Caracciolo (1620), Luca Giordano (1686), Domenico Antonio Vaccaro (1705) e Francesco Solimena (1718).
Tra tutti questi autori ed ancora altri, anche meno noti, mi ha incuriosito il Noli me tangere posto in una chiesetta di piccolo paese della bergamasca. Si tratta di un affresco quattrocentesco, parzialmente tronco alla base, che si trova su una parete nell’antica chiesa di San Vigilio a Pinzolo.
La pittura, assieme ad altre scene della vita di Cristo, come denuncia la scritta: “Angelus de Averara pinxit“, è opera di Angelo Baschenis (documentato tra 1450/1504), esponente di una larga famiglia di frescanti originaria di Averara, nell’alta Valle Brembana, che la realizzò nel 1490.

L’affresco, reso con una soave ingenuità compositiva non meno che espressiva, mostra con un taglio ravvicinato il Risorto, nell’inconsueta fisionomia di un uomo attempato, nel mentre che dialoga con la Maddalena, della quale risalta una veste rossa e la lunga chioma ramata con la quale a casa di Lazzaro aveva asciugato i piedi di Gesù. Questi, che veste una lunga tunica brunita, tiene alzato l’avambraccio destro, nel gesto severo di ammonire la pia donna che se ne sta prona ai suoi piedi, in un atteggiamento sgomento che denota una profonda pietà umana, contraltare allo sguardo grave e al contempo solenne del Cristo, che con la sinistra imbraccia un lungo legno, presumibile manico della vanga del giardiniere andata persa assieme a tutta la fascia inferiore dell’affresco.

Più che il braccio alzato, a tenere distanti Gesù e Maria di Magdala, però, è un cartiglio che, assecondando la diagonale disegnata dall’arto, reca la scritta “Noli me tangere”; una interposizione che inopinatamente finisce per togliere centralità proprio al vuoto tra le due figure, essenza stessa della perentoria intimazione del Risorto alla donna, la qualcosa autorizzerebbe a ritenere l’iscrizione come probabile frutto di un intervento posteriore, avente un chiaro intento esplicativo per i fedeli che, nella modesta chiesa bergamasca, si fossero trovati di fronte alla pittura murale.
Una singolarità fa distinguere il “Noli me tangere” di Angelo Baschenis da quello di tutti gli altri pittori: il racconto iconografico dell’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala, tratto ovviamente dalle pagine del Vangelo di Giovanni, piuttosto che nel consueto hortus conclusus, ambientazione cara a tanti pittori che si occupati dell’episodio, è curiosamente situato in una vigna, sotto un pergolato che mostra tralci già insolitamente carichi d’uva, e con un cupo cielo indaco sullo sfondo di rossicce balze montuose che disegnano l’orizzonte.
Il perché di questa inconsueta ambientazione non ci è noto, per cui non tocca che riferirci al valore simbolico che la vigna frequentemente ha nella Bibbia. Ma certamente più che ad ogni altro riferimento, occorre tornare al Vangelo di Giovanni (15, 5), che ci riporta le parole stesse di Gesù: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto».
Per il permanere di una ricorrente spazialità e di moduli e motivi con una forte impronta didascalica, stilisticamente può dirsi che il frescante bergamasco rielabora un linguaggio ancora fortemente goticheggiante in quello scorcio di XV secolo, già aperto alle incipienti costruzioni rinascimentali.
Per il permanere di una ricorrente spazialità e di moduli e motivi con una forte impronta didascalica, stilisticamente può dirsi che il frescante bergamasco rielabora un linguaggio ancora fortemente goticheggiante in quello scorcio di XV secolo, già aperto alle incipienti costruzioni rinascimentali.