Il secondo centenario della morte di Napoleone Bonaparte è servito a ricordare la sua voglia di primeggiare su tutto, sui popoli e sulle nazioni che lo portò ad essere, lui che era esponente di una modesta nobiltà di provincia, guida di un impero che voleva emulare quelli di Cesare e di Carlo Magno.
Quanto Napoleone fu avido di potere e di riconoscimenti politici e militari tanto fu spregiudicata in amore e nel sesso Paolina, la più piccola e la più bella di casa Bonaparte.

(Paolina Bonaparte ritratta da Marie-Guillemine Benoist, nel Castello di Fointenebleau)
Chi si è avventurato nella conta degli innumerevoli amanti ne ha perso subito il conto, così spropositato e frenetico fu il loro alternarsi nell’alcova di Paolina, che fu subito battezzata “la sorella di Francia”. Assai più contenuto e certamente noto è invece il novero dei mariti: solo due. Il primo fu il generale Charles Victor Leclerc, al quale la sedicenne Paolina fu maritata (contro la sua volontà) dal fratello, che contava così di riuscire a calmarne i bollenti spiriti; e da questi ebbe il suo unico figlio, Dermide, prima che l’ufficiale morisse dopo solo cinque anni di matrimonio. Il secondo marito fu il principe Camillo Borghese, esponente della migliore nobiltà romana che la bella e spregiudicata sorella di Napoleone fu obbligata a sposare quando il fratello, che nel frattempo si era autoproclamato “Re di Roma”, ritenne di dover portare dalla sua parte il ceto papalino, fin troppo restio a mettersi sotto lo stendardo con l’aquila imperiale. Del resto il principe Borghese aveva tutte le carte in regola per imparentarsi con l’Imperatore: era nobile, ricchissimo e per giunta fervente bonapartista. Aveva il solo difetto di essere sessualmente “tiepido”, cosa che faceva dire a Paolina, quasi a giustificare le sue intemperanze erotiche: «Sono la moglie di un eunuco».
Prima, durante e dopo questi matrimoni Paolina fece di tutto per far parlare e straparlare di sé, cambiando amanti con la stessa frequenza con cui cambiava vestiti e cappelli, e senza che questo suscitasse in lei il minimo imbarazzo.
Fu una mantide? Una ninfomane? Non furono in pochi a crederlo. Paolina era il centro di curiosità e l’attrattiva da parte delle donne e degli uomini che non le risparmiarono salaci commenti, ovviamente alle sue spalle. Le critiche più aspre le vennero perlopiù dalle donne del suo tempo, le grandi dame di corte che però furono sempre pronte e attente a copiare i magnifici abiti “stile impero”, di mussola bianca e merletti trasparenti, che la sorella dell’Imperatore esibiva con uno stile e un’eleganza inarrivabili.
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Sedotto dalla bellezza senza pari della moglie, il principe Borghese commissiona ad Antonio Canova (1757-1822), il più grande scultore del tempo, una sua statua a grandezza naturale. Una raffigurazione che ne celebrasse l’incantevole bellezza, pari a quella di una dea. E giusto a una dea pensò lo scultore italiano, ma non la Diana cacciatrice per la quale propendeva Canova.
«Preferisco Venere», pare che abbia replicato Paolina, lasciando scivolare l’abito ai suoi piedi e mostrando così la sua splendida nudità. La Venere vincitrice, dea dell’amore a cui Paride, secondo il mito, assegnò il primato della bellezza tra le dee dell’Olimpo.
La scelta non dispiacque a Camillo, poiché l’opera di Canova avrebbe magnificato anche la famiglia Borghese che si riteneva discendente da Enea, l’eroe virgiliano figlio della dea dell’amore.
Nella magnifica composizione la dea Venere, o meglio ancora Paolina, è raffigurata distesa su di una dormeuse, mentre regge nella mano sinistra una mela, il famigerato pomo della discordia che gli consegnò Paride e che fu all’origine della guerra di Troia.
L’incantevole grazia della principessa è prepotentemente affermata dal suadente candore del marmo, nel quale Canova cavò la figura altera di Paolina, nuda fino all’inguine e appena ricoperta da un panneggio che poco nasconde delle sue forme e che anzi conferisce alla protagonista una decisa carica di sensualità, ancor più enfatizzata dalla sofficezza del materasso che sembra affondare sotto il peso della dea.
In realtà, pare che la principessa abbia posato solo per la testa, lasciando che fosse una modella di Canova a prendere il suo posto per tutto il resto; una soluzione questa che non la sottrasse agli ipocriti commenti di quanti avevano saputo della scultura.
«Paolina ha posato nuda – si andava dicendo con una certa dose di maliziosa pruderie – non avrà avuto freddo?». Piuttosto che irritarsi, la replica della principessa Borghese fu caustica e definitiva: «Macché, per fortuna c’era la stufa a riscaldarmi!». Una risposta che era essa stessa paradigma della donna.
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Stilisticamente la scultura, i cui volumi sono concentrati nella parte sinistra mentre vanno assottigliandosi verso destra, è espressione tra le meglio riuscite dello stile neoclassico di cui fu esemplare interprete Canova, che per questo fu detto “il nuovo Fidia”.
Paolina Borghese come Venere vincitrice è un sorprendente esempio del concetto di bellezza ideale, che lo scultore trevigiano trasse dai modelli antichi, greci per lo più. La figura distesa, poi, attinge alla visione dei sarcofagi etruschi e romani fino alle Veneri rinascimentali di Correggio, Giorgione o di Tiziano.
La Venere vincitrice, eseguita tra il 1804 e il 1808,è vista di fianco, con il busto sollevato grazie a due cuscini sui quali appoggia il braccio destro, mentre con la mano si sostiene la testa. Il viso è un ovale perfetto al quale un’elaborata pettinatura, tenuta alta sulla nuca, contribuisce ad assegnare la fierezza regale che era propria di Paolina, la cui bellezza sembra perdersi assieme allo sguardo in un mondo distante ma pur tuttavia è prossimo a toccarci l’anima, che resta inesorabilmente ammaliata dalle forme perfette, sublimazione di una grazia divina e idealizzata.
Il bracciale di perle che la dea porta al polso destro e la morbidezza della chaise-longue, assieme pettinatura e alla mela che tiene con la sinistra, sono splendidi dettagli che contribuiscono a fare della Venere Borghese un capolavoro da ammirare con calma e attenzione. Un obiettivo a cui Canova pensò scegliendo di dotare la statua di una sorta di ingranaggio, ancora funzionante, per farla rotare, così da consentirne l’osservazione a trecentosessanta gradi.
Come se non bastasse la sinuosità delle forme, l’eleganza della posa e la preziosità dell’intaglio a rendere impossibile resistere al fascino della statua, il maestro intese rendere la sua superficie levigata, che ancor più lucente applicando una finitura con una cera rosata che dava al corpo una sorta di naturale e voluttuoso rossore, oltre che una certa vitalità e finanche umanità.
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Non è difficile leggere nell’esaltazione della bellezza di Venere la celebrazione della magnificenza di Napoleone, del quale Canova divenne lo scultore ufficiale. Ed è proprio ad Antonio Canova e allo splendore di quest’opera che occorrerà dire grazie se dopo quasi due secoli non ci siamo dimenticati di Paolina Bonaparte, che morì il 9 Giugno 1825 a Firenze. Qui, malata, l’aveva riaccolta il principe Camillo che lei, ancora una volta in preda alla sua connaturale ricerca del piacere erotico, aveva abbandonato una decina di anni prima.
Paolina aveva 44 anni e, secondo le sue volontà, fu sepolta nella cappella che i Borghese avevano nella basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, dove pure, nella Galleria Borghese, è esposta la preziosa e in comparabile statua di Paolina Borghese come Venere vincitrice.