Le letture di un tempo hanno irrobustito la mia fede infantile

La mia fede, come in tanti, ha origini familiari. Mi arriva dai miei nonni. Mi arriva da mia madre e da mio padre, che rivedo ancora in fondo alla chiesa, in piedi. Ma ero un bambino e tanto non capivo, e mi facevo bastare ciò che sentivo dire in chiesa, quello che imparavo al catechismo, cui dovevamo il tributo di una parte del nostro tempo.

Poi, adolescente e giovane adulto ho avuto l’opportunità di leggere autori che parlavano, in maniera diretta o tra le righe, di Cristo e della fede in Lui. Ho conosciuto così, per dirne alcuni, Archibald Cronin, William Faulkner e il “Diario di un curato di campagnadi Georges Bernanos. E ancora più avanti Hermann Hesse, John Steinbeck e Jack Kerouac, ma non Tolstoi e Dostoevskij le cui opere ci venivano proposte dalla televisione in bianco e nero.

Per una sorta di snobismo per un lungo periodo ho ritenuto che la letteratura italiana potesse dirmi poco. Mi ero fatto bastare Manzoni e Verga. Che errore! Mi sono rifatto più avanti negli anni, recuperando dalla memoria i libri e gli autori come Riccardo Bacchelli che avrei dovuto leggere per tempo; e ancora  Mario Pomilio e Michele Prisco.

Debbo, inoltre, all’idealista interesse per la politica la lettura e la passione per Levi e Silone, per Dorso e Salvemini; un’attrazione che ha influenzato non poco la mia vita di giovane e di adulto. E poi di quanto si scriveva su “Il tetto”, la rivista napoletana della sinistra cattolica, fortemente critica verso quei settori più integralisti della Democrazia Cristiana, nella quale pure mi riconoscevo.

Erano gli anni postconciliari, quelli della rivoluzione “dolce” nella chiesa giovannea, gli anni di don Michele Grella e padre Pio Falcolini in Irpinia. E ancora di più erano gli anni nei quali un prete straordinario come don Bruno Mariani (morrese trapiantato a Sant’Angelo dei Lombardi e qui morto a causa del terremoto del 1980), dava testimonianza viva di come dovesse essere praticato il Cristianesimo, di come il Concilio potesse essere vissuto alla luce delle costituzioni dogmatiche (mi riferisco alla “Lumen Gentium” e alla “Gaudium et Spes”) che talvolta ci sono parse fin troppo prudenti per chi guardava con una certa attenzione alla chiesa dell’America latina, un continente percorso da tensioni e contraddizioni enormi che diedero origine alla cosiddetta “Teologia della Liberazione”.

Affascinava me e gli amici de “Il dialogo”, un gruppo culturale e politico che ha lasciato il segno in provincia, il “progressismo cattolico” che aveva il suo epicentro nel capoluogo toscano (sono consegnati alla storia don Enzo Mazzi e l’esperienza della ‘comunità di base’ all’Isolotto a Firenze), e allora serviva leggere “Testimonianze” e gli scritti di padre Balducci, di La Pira e Don Milani. Il Priore di Barbiana l’ho poi ritrovato (e quindi definitivamente collocato nel mio pantheon ideale) studiando per diventare insegnante; studi che mi hanno avvicinato anche a Thomas Merton e Jacques Maritain, così che ancora oggi posso dire che tanto ho appreso da loro.

Confesso, infine, che ho trovato cruda, addirittura indisponente la lettura di Giovanni Papini e della sua “Storia di Cristo”, forse perché lo scrittore toscano è arrivato a Gesù con il fuoco sacro del convertito o forse perché il mio approccio è avvenuto quando ero ancora acerbo. Di sicuro, però, Papini è stato profetico quando scriveva: «… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C’è ancora che l’ama e chi l’odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione […] Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri».

Tutto il resto è storia di oggi. Tempo di forte confusione politica, di vacillamenti ideologici, di grande fragilità culturale a cui poco o niente riesce a opporre la letteratura. Resta, per chi come me è credente, l’ancora del Vangelo e la speranza in un Pontefice arrivato “dalla fine del mondo”.

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Michele Vespasiano

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