Durante la seconda guerra mondiale, l’incombente presenza tedesca nella città di Napoli e il mutato clima che aveva alterato la vita sociale, indussero molte famiglie a lasciare le loro case e a trovare pace e ristoro in zone decisamente più tranquille, principalmente dell’ entroterra appenninico.
Fu a seguito di questi flussi che anche a Sant’Angelo dei Lombardi giunsero numerosi “migranti”, espressione per lo più di una media borghesia che poteva permettersi senza eccessivi patimenti tali volontari allontanamenti.
Tra questi “napoletani” arrivò nella cittadina altirpina, e vi si trovò a suo agio, anche un enigmatico signore che si poteva incontrare tra i vicoli e i borghi rurali
santangiolesi, suscitando tra i residenti qualche legittima curiosità sulla sua identità.
Quella figura allampanata, sotto un cappello a larghe tese, era un estroverso artista che spesso se ne andava in giro armato di cavalletto e con i pennelli e la scatola dei colori in una sacca di tela grezza. Se ne andava in giro, con fare stralunato, in cerca di una veduta o di uno scorcio che l’intrigassero, di un frammento della modesta vita di paese o anche solo di un volto da ritrarre; insomma, di un’ emozione da trasferire sulla tela.
Si trattava di Luigi Crisconio, un pittore che solo anni dopo la critica ha doverosamente considerato come un protagonista di primo piano nel panorama artistico napoletano della prima metà del XX secolo; un tempo in cui c’era qualcuno che, abbandonata la stanca e ripetitiva oleografia delle gouaches tanto cara agli stranieri in cerca di un ricordo da portare a casa, aveva scelto di privilegiare una pittura più vera, immediata, che si calava nella quotidianità.
Luigi Crisconio al lavoro
Una scelta artistica che Crisconio, lasciato, seppure solo momentaneamente, il contesto umano e sociale del suo ambiente più consono, non ebbe difficoltà a perseguire anche a Sant’Angelo.
Quelli erano gli anni nei quali, infatti, i paesi dell’Alta Irpinia non avevano pudore a mostrare i volti antichi dei contadini, le modeste masserie di campagna assieme all’intera tavolozza delle stagioni: dal bianco immacolato dei lunghi inverni innevati all’ ocra ossessivo dei campi d’estate, dal verde dominante delle intriganti primavere alle mille tonalità dei rossi autunnali che profumavano di mosto e mele limoncelle.
Anni nei quali, oltre a Crisconio, arrivarono nei nostri paesi pittori del calibro di Giuseppe Casciaro, Alfonso Grassi e tanti altri, ognuno intento a rappresentare la “sua” Irpinia.
Insomma, per dirla con Aldo De Francesco, si era «in anni, in cui l’Irpinia aveva ancora i colori dominanti del mondo bucolico e della ricostruzione, il bianco delle cave di pietra, il grigio cotto delle rotabili polverose, il nero degli “scialli erranti” tra campagne e usci, ma anche le calde tonalità delle memorie, i pastelli di Giuseppe Casciaro, il verde bosco di Michele Lenzi, l’ocra vivace, i toni forti e sanguigni di Luigi Crisconio, sempre vivi nel ricordo di Montella, Bagnoli, Nusco e Sant’Angelo; e le montagne erano ancora il “regno” di spaccalegna, di cercatori di fragole e di funghi, di estive transumanze, di tintinnii di campanacci».
Sant’Angelo dei Lombardi (Crisconio 1944)
Luigi Crisconio nacque a Napoli il 25 agosto del 1893, da Francesco e Annamaria Calise. Appena diciottenne perse il padre, la qual cosa lo mise suo malgrado di fronte alla necessità di doversi occupare assieme alla mamma della cartoleria di famiglia in Piazza della Borsa, a Napoli.
Ma fare il bottegaio non era proprio nelle sue aspirazioni, poiché l’unica cosa che gli piaceva era dipingere; cosa che faceva di continuo, pure stando dietro il banco della cartoleria e senza curarsi dei clienti che entravano nel negozio. Clienti che, anzi, talvolta arrivava finanche a redarguire quando la loro sola presenza lo distraeva dal concetto immaginifico che cercava di tradurre in pennellate.
Vista l’impossibilità di ricondurlo ad una vita “normale”, la madre, caduta quasi in miseria, si rassegnò a vendere il negozio e questo acuì maggiormente i dissapori tra i due. Fu allora che su pressione proprio della mamma e di qualche amico di famiglia, nel 1913 Crisconio, per dare un senso compiuto alla sua
irrefrenabile passione, si convinse ad iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove fu conquistato dall’ammirazione per Michele Cammarano, che
teneva la cattedra di pittura di paesaggio, i cui insegnamenti furono assai importanti per la sua formazione.
Nell’importante istituto napoletano si diplomò nel 1919 e, come ha poi scritto Raffaello Causa, «pur muovendo i primi passi nel solco della grande civiltà pittorica meridionale, affine al vedutismo di tradizione, egli si distaccò dai contenuti ad essi collegati per conquistare un linguaggio autonomo e schiettamente contemporaneo».
Un ritratto di Luigi Crisconio si ritrova tra le note che il critico Nella Pane Circelli dedicò al pittore napoletano: «L’artista con i baffoni neri, il naso adunco, l’occhio di fuoco dallo sguardo penetrante, le grosse scarpe sempre infangate, il cappello calato sugli occhi, l’andatura guardinga e un po’ felina era anticonformista, ironico, insofferente dei difetti della società in cui viveva, anelante alla libertà e all’indipendenza».
Una rappresentazione sufficiente ad inquadrare non solo i tratti fisici salienti ma anche la personalità dell’uomo, poiché le due cose, appare evidente, non sono affatto scindibili.
Non era più giovanissimo quando Luigi Crisconio cominciò a “passare la stagione” a Sant’ Angelo, dove si lasciò intrigare dal clima gradevolmente fresco, dalla buona cucina e anche dalla generosa ospitalità degli abitanti di quello che allora era il capoluogo amministrativo dell’Alta Irpinia, i quali lo accolsero con il consueto calore che riservavano ai tanti “forestieri” che abitualmente frequentavano Sant’Angelo per ragioni di lavoro o semplicemente per svago.
Vi erano tra questi il Procuratore del Re e i diversi magistrati e operatori di giustizia in servizio nel locale tribunale; e poi i responsabili degli uffici fiscali e finanziari e pure gli ufficiali del distaccamento di artiglieria acquartierati a San Marco, nell’ ex convento francescano fuori le mura, e i comandanti della
compagnia dei Regi Carabinieri.
Tutte persone che l’artista napoletano aveva preso a conoscere e incontrare nel circolo dei signori o ai tavoli delle trattorie della cittadina altirpina, frequentate per la buona cucina che nulla aveva da invidiare a quella napoletana.
Nella cittadina altirpina Luigi Crisconio ebbe modo di familiarizzare con un altro napoletano appassionato di pittura, da tempo accasato nel capoluogo altirpino con una nobildonna del posto; si trattava di Antonio Rossi, figlio del più noto Enrico Rossi, valente pittore, vignettista ed illustratore della scuola napoletana dell’Ottocento.
Probabilmente fu proprio raccogliendo un iniziale invito di Rossi che Crisconio approdò a Sant’Angelo, diventando un assiduo frequentatore della casa e della sua tavola, trovando poi modo di sdebitarsi con numerose tele della generosa ospitalità e di un qualche adeguato rimborso che pure gli veniva versato.
Assieme ad Antonio Rossi faceva lunghe escursioni nelle campagne o nelle periferie del paese per catturare l’esprit du lieu che lo aveva accolto e al quale mai si negava.
I dipinti che ci sono pervenuti dei suoi soggiorni santangiolesi raffigurano per lo più scorci del paese, eseguiti con grande maestria e sintesi compositiva.
Sant’Angelo dei Lombardi (Crisconio 1944)
Sant’Angelo divenne così il buen retiro del pittore, anche quando, lasciata Napoli nel febbraio del 1934, si era trasferito a Villa Perrone, nella casa della madre a Portici nell’attuale via Emanuele Gianturco.
Qui, però, la coabitazione si rivelò ben presto assai più problematica di quanto non avesse già sperimentato a Piazza Borsa; soprattutto dopo che la mamma prese a contrastare fortemente la relazione che il figlio aveva con la bella Elisabetta Amato, la mitica Elisa che fu sua modella esclusiva, alla quale dedicò trasgressivi “nudi”. E non si mitigarono i contrasti tra loro nemmeno dopo che nel 1937 Luigi regolarizzò il rapporto con Elisa con il matrimonio.
Luigi Clisconio – Panorama (forse di Sant’Angelo dei Lombardi)
Dipingere per Crisconio era quasi ossessivo: per assecondare la sua ispirazione o semplicemente perché richiesto tirava fuori i suoi colori e componeva, su tela o anche su un semplice cartoncino, tutto ciò che gli procurava una qualche emozione.
Qualcuno a Sant’Angelo ricorda ancora che Crisconio portava sempre con sé, come una sorta di tabacchiera, una minuscola scatoletta di colori: era lo strumentario minimale per tracciare le linee essenziali di un paesaggio o di un soggetto che in seguito avrebbe completato. «Anche in questo mostrando
il temperamento schivo, sobrio, portato a nascondersi, a mimetizzarsi nel paesaggio che dipingeva come un ramarro. La pittura lo esauriva a tal punto che doveva fare delle pause per tirare il fiato» (Aldo De Francesco, Napoli e l’attrazione culturale per l’Irpinia , in “Corriere
dell’Irpinia”, 24 gennaio 2011).
Oltremodo scontroso, quando impugnava il pennello Crisconio non si apriva facilmente con la gente, ma sgorgava invece inevitabile la risata quando qualche campagnolo, vedendolo alle prese coi colori, arrivava a chiedergli: «Professo’, ma vuj pittate pure ‘e case!».
Appartengono al tempo dei lunghi e ricercati soggiorni santangiolesi i paesaggi con i toni forti e sanguigni del fondo rurale di Mangiasale, la campagna a valle del paese dove, arrivando con l’amico santangiolese, vi trovava contadini al lavoro o giganteschi buoi che tirano L’aratro. Un luogo che, assieme ad altri, gli diede l’ispirazione per altre tele che l’autore titolò semplicemente Casolare in campagna, Paesaggio irpino, Paesaggio campestre, firmandole e datandole tra il 1943 e il ’44.
Della “sua” Sant’Angelo restano numerose raffigurazioni, ognuna connotata da una sperimentata classe cromatica e da un acceso brio disegnativo e necessariamente diverse dai dipinti di genere di soggetto napoletano, con le marine e i paesaggi della costa partenopea.
Tra queste vedute santangiolesi si distinguono le suggestive vedute di borgo San Rocco o di via Mancini e i panorami altrettanto intriganti da e su via Petrile, la passeggiata della borghesia santangiolese con l’imponente villa Cipriani sullo sfondo.
Quadri che, per la gran parte, sono da sempre nella collezione privata Rossi-Del Priore (1). Non saprei dire, invece, dove possa trovarsi (e se ancora esiste) il ritratto che Crisconio fece all’ amico oste Michele Saggese, raffigurato con aria compassata mentre, seduto davanti a un bar del paese prende il fresco fumando il sigaro. Un ritratto che, in linea con la costante ricerca e sensibilità verista del pittore per il figurativismo, fu molto apprezzato in paese per la suggestiva interpretazione del vecchio taverniere.
Hanno invece nutrito grande rammarico, allora e dopo, i familiari di due bambine di Sant’Angelo, Magda e Flora, alle quali l’artista napoletano non riuscì a fare i ritratti che avrebbero voluto, in quanto le piccole modelle non ce la fecero proprio a starsene ferme mentre posavano. In entrambi i casi Crisconio, innervosito dall’ irrequietezza delle bimbe, nonostante fossero le figliolette di generosi amici, dismise le tele e passò oltre.
Durante gli anni più crudi della guerra ci provò a restare più a lungo in Alta Irpinia, ma il clima rigido non incoraggiava il soggiorno invernale a lui che era abituato al dolce tepore napoletano, cosicché nel settembre del 1942, pur di restare lontano dai tormenti che gli procurava la madre, mandò una cartolina da Sant’Angelo ad un amico, Domenico Fiorentino, per chiedergli di informarsi se fosse ancora disponibile una certa casa che voleva prendere in fitto a Sorrento,
in Piazza Tasso. Fu questa una scelta che, però, non lo tenne lontano da Sant’Angelo e dall’Alta Irpinia, dove continuò a venire d’estate per tuffarsi con frenetica
passione nel lavoro che amava oltremodo.
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La stagione terrena di Luigi Crisconio ebbe termine il 28 gennaio 1946, si disse per una congestione cerebrale. Morì a soli 54 anni a Villa Perrone, nella Portici che l’aveva adottato come un figlio prediletto, dove aveva lavorato per moltissimi anni con amore ed entusiasmo, poco lontano dalla spiaggia del Granatello che tante volte aveva dipinto.
Scrive Ascione, uno storico porticese: «Quando la notizia della sua malattia si diffuse nella cittadina, la sua casa fu invasa da amici ed ammiratori: operai per la più parte. Era tutto il suo mondo, che egli ha saputo esprimere ed interpretare in modo stupendo, che si moveva intorno al suo letto. Guardandolo con gli occhi
umidi di pianto, questi lavoratori sentivano che Crisconio era uno dei loro, uno dei più buoni tra loro. Aveva lavorato sempre, Crisconio. Aveva lavorato fin dall’infanzia: aveva dipinto e dipinto e dipinto sempre, con frenesia selvaggia, dall’alba alla notte. Si recava in campagna, al sole ed alla pioggia, colla sua pesante cassetta di colori, percorrendo chilometri a piedi, alla ricerca di una emozione viva, con l’umiltà dei grandi maestri e con l’ostinazione degli autentici lavoratori. Aveva le mani forti ed incallite degli operai metallurgici e dell’operaio aveva il candore psicologico e l’entusiasmo …».
Sebbene quand’era ancora in vita non sia mai stato particolarmente considerato dalla critica del tempo come un artista di peso, di fatto Luigi Crisconio è stato il protagonista assoluto della pittura napoletana del secondo quarto del XX secolo, rappresentando insieme ad Emilio Notte, anche questo un “santangiolese per caso“, la spinta più forte e significativa al rinnovamento della pittura a Napoli.
Paesaggio Irpino (Crisconio 1944)
Un ritratto tanto distaccato quanto intimamente rispettoso dell’uomo e del pittore lo ha lasciato Guglielmo Peirce, un suo apprezzato discepolo, che così scrisse dopo la morte di Luigi Crisconio: «Calvo, piccolo, vestito dignitosamente di scuro (grigio piombo o blu), con la giacca ad un petto interamente chiusa, le scarpe a stivaletto, due occhi neri sfavillanti, lucidi, e le mani tozze, pelose, fortissime, piene di ossa, muscoli e vene. Questo era Luigi Crisconio. Quanto era vulcanica, istintiva, in ebollizione la sua pittura, tanto lui di persona era ordinato, lindo, compassato. Quel suo abito grigio o blu era un’affermazione di lotta, di opposizione,
di odio alla miseria. Detestava i pittori bohémiens, capelluti, stracciati, sporchi, disordinati. Gli altri suoi colleghi avevano studi più o meno pittoreschi. Lui abitava in un appartamento con mobili intagliati, di mogano, candelabri, poltrone. Un appartamento che si sarebbe detto di un medico o di un avvocato. Crisconio era in perenne contrasto con gli artisti ufficiali. Quella sua pittura nera, fumosa, sgraziata, dimessa, verista, fatta di povere cose (un paesaggio industriale, un angolo del porto, un asinello, una cartata di noci, il ritratto di un “ogliaro”, il ritratto di una panettiera o di una usuraia) faceva grande contrasto con certa pittura stilizzata, fredda, grandiosa, “romana” che era allora in voga. La sua pittura veniva considerata una manifestazione dialettale, provinciale, volgare. Quella sua pitturaccia provinciale, povera, dimessa, sgraziata, scostumata, attaccata alle cose concrete, con una presa diretta sulla realtà invece rappresentava già qualche cosa rispetto a certa pittura educativa e falsa di quegli anni. Dopo sarebbero arrivati stile e invenzione. Ma Crisconio non fece in tempo: morì».
Sulla vena artistica di Crisconio, meglio ancora dice Pietro Barillà, altro pittore e critico napoletano di quel tempo: «Le opere provano ancora una volta la dinamica attività del Crisconio; che, nel paesaggio, nella figura, nel ritratto, sa cogliere, con generosità d’impasto e spontaneità di mezzi, l’essenziale. Alcuni
paesaggi incantano per la loro preziosità, senza essere leziosi. Una pittura, quindi, chiara e persuasiva».
E infine propongo il giudizio critico di Renato Guttuso: «Luigi Crisconio è un pittore semplice. Perciò è difficile. Perciò al nostro occhio “moderno” può passare quasi inosservato. [ … ] Luigi Crisconio è una voce di cui va dato conto, nella pittura dei primi quaranta anni di questo secolo, ed è una voce più forte di altre, più pura e più vera, anche se non fu futurista, metafisico o altro, ma solo un vero pittore, legato agli uomini che conosceva, alla terra, alle cose, al paesaggio che conosceva».
In buona sostanza, il pittore, che per sottolineare la sua formazione autodidatta si definiva un “operaio della pittura, un servo del colore“, è stato un interprete autentico del sentimento meridionale che ritrovava nelle espressioni umane e paesaggistiche della sua Napoli, non meno che nei volti, nei vicoli e nelle campagne di Sant’Angelo.
1) Debbo un sentito ringraziamento alla signora Magda Rossi Del Priore per le notizie che mi ha passato e per aver acconsentito alla riproduzione fotografica di alcuni dei dipinti della collezione di famiglia.