
LA FUGA
Le finestre sanno tutto di noi. Sui loro vetri si specchiano i ricordi come nuvole senza pioggia e in attesa di silenzio.
(C. Mangiaracina)
Il pullman andava stanco lungo i tornanti della vecchia statale. La strada che portava al paese della sua inconsapevole adolescenza era lunga, in salita e soprattutto dissestata, così da obbligare il povero chauffeur a un ripetuto slalom. E poi, non le era mai piaciuto viaggiare con la corriera per l’odore acre di sudore di cui erano intrisi i sedili e finanche i finestrini, né gradiva le continue soste ad ogni pur piccolo borgo che attraversava.
Mentre il pullman saliva non potette non pensare che la vita arroccata e verticale di quel paese un tempo era stata anche sua; un modo di vivere che ora le appariva incredibilmente anacronistico. Per lei, poi, che arrivava dalla pianura di una città del nord era addirittura privo di ogni ragion d’essere.
Solo ora che ci stava tornando, però, quei pensieri si affacciavano alla sua mente. Prima mai l’aveva pensato, né mai avrebbe creduto di potersene distaccare.
Le case, i vicoli del paese, finanche gli alberi e i larghi scorci che si aprivano sulla valle avevano rappresentato tutto il suo mondo. Il più vasto, il più lontano orizzonte della sua fanciullezza, aveva detto un dotto letterato. E non potette non riflettere sul mutamento delle cose, sulle strade che vanno in diverse direzioni e di come tutto ciò, in fondo, fosse normale.
Da quanto tempo mancassi dal nostro paese neppure lo ricordavo. Di sicuro da un’eternità, se le ombre iniziavano a sbiadire i volti, a stingere i colori, a spegnere i suoni che hanno sottolineato le mie stagioni. E dire che li credevo ben fissi nella mia mente, nonostante già da un po’ avessi tagliato i ponti con quel mondo che ora, curva dopo curva, si avvicinava nuovamente ma che, nonostante mi applicassi, stentavo a riconoscere.
Che fine avevano fatto i tigli secolari, ritti come giganti dove ora c’è quell’anonimo spiazzo pieno di nulla? E il bar dei cento ragazzi? E i palazzi nuovi, sorti in un amen là dove prima c’erano solo pruni selvatici e alberi di mele cotogne? Il mio sguardo, come non sarebbe stato possibile prima, riusciva ora a spingersi oltre, arrivando fino al profilo dolce dei monti a mezzogiorno che – pensai – almeno quelli erano ancora al loro posto.
A destra la piazza delle mie innocenti evasioni. La riconobbi a mala pena, tanto era cambiata. I bianchi marciapiedi e la lunga teoria di acacie erano fasciati come da una sorta di alone di luce che ne deformava i contorni, alterandone l’abituale geometria. Il pullman però non svoltò e neppure si fermò per farmi scendere. La confusione che già arrabattava le mie certezze lasciò così il passo a una sorta d’irrequietezza che mi stordiva oltremodo.
Ma io devo scendere, dove diavolo mi porta, cominciai a dirmi sottovoce, prima di azzardare di chiederlo all’autista, il quale fu lesto a intuire il disagio e a rassicurarmi che la corsa sarebbe finita poche decine di metri più avanti.
Alla fermata dovetti apparire talmente frastornata che un signore, coperto da un pastrano leggero che un tempo aveva avuto una sua dignità, la stessa persona che mi aveva ceduto il passo nello scendere dalla corriera, si sentì obbligato a chiedermi se per caso avessi bisogno, che so, di una qualche informazione.
No, grazie, replicai. Ma subito me ne pentii, poiché mi resi conto che senza indicazioni mi sarebbe stato alquanto difficile raggiungere la mia destinazione.
Il capolinea era su un piazzale di asfalto nero. Sul ciglio fuoriuscivano spuntoni di pilastri di cemento armato che proiettavano al cielo monconi di ferro arrugginiti, puntati come canne di fucile in attesa degli uccelli di passo. Luisa si guardò intorno in cerca di un qualcosa che le facesse capire dove fosse. Nulla c’era del suo tempo. Nulla di quando aveva deciso di fare la valigia e di partire per Torino, per finire poi a Moncalieri, apprendista commessa in una boutique alla moda nella centralissima via del Real Collegio. Un luogo elegante, colorato che in seguito sarebbe divenuto tutto suo. La prima cosa, oltre la sua vita, che avesse mai posseduto per davvero. Praticamente l’intero suo mondo, l’ombelico di tutti i suoi interessi.
Provò ad andare là dove la memoria sbiadita le indicava. Il tempo non era un granché bello. Giorni d’autunno, che le rimandarono nitido il ricordo dei giorni di scuola, con l’usuale sciamare sui marciapiedi assieme ai compagni di classe. Lungo la strada si sentì scrutata, esaminata da occhi invisibili. Colpa dell’aria spaesata che la faceva forestiera o forse, chissà, del cavalletto e della tela che fuoriuscivano dalla sacca che portava a tracolla. Un’antica passione, la pittura, mai del tutto riposta, nemmeno quando la sua mente e i suoi occhi erano stati annebbiati da circostanze che in nessun caso avrebbe voluto per compagne della sua vita. Ma questo non bastò a rassicurarla, cosicché cominciò a pentirsi di aver accettato la sfida con quella vocina che le sussurrava da dentro: vai… vai!
Evitò di chiedere a una donna sbucata da una traversa con passo lesto. L’intimorì, forse, che fosse interamente vestita di nero, dallo scialle alle calze, alle scarpe con i tacchi bassi che tamburellavano sui selci squadrati della processionale. Il suo modo di vestire le riportò alla mente la figura incanutita di sua nonna, sempre ammantata di nero, d’estate e d’inverno, di giorno e di sera. Finanche nelle feste comandate, quando a tutti era dato di poter tirar fuori l’abito più bello.
Luisa si sentì inadeguata con il suo trench a tre quarti, di colore verde acido; un soprabito che a Moncalieri sarebbe stato un capo aggraziato, finanche elegante, invece là, al paese, quella tinta le parve decisamente vivace e per questo poco appropriata. E con il soprabito anche le scarpe che portava ai piedi, un paio di ballerine dello stesso colore del trench, le sembrarono fuori posto, tanto da procurarle un percepibile disagio, addirittura un’ansia latente che la sua mente percepiva come decisamente fastidiosa.
Perché mai non ci aveva pensato prima di partire? Dove aveva creduto di dover andare? Forse che aveva dimenticato qual era il suo mondo, o meglio qual era stato il mondo da cui era scappata come una ladra. Esule volontaria in una terra che tutto sommato non le era stata matrigna. Anzi ebbe modo di sperimentare cortesia e riservatezza, accoglienza e affabilità. Un calore che talvolta non aveva conosciuto nella sua terra d’origine, dove la condivisione sfociava spesso nell’invadenza e il riserbo si mutava in sfrontatezza.
Che strano, pensò, scoprirsi estranea là dove sapeva che affondavano le sue radici, là dove il suo cuore doveva sentirsi quieto, rasserenato, mentre invece…Un’altra cosa la stupì: anche se era primo pomeriggio, un’ora che forse teneva le persone ancora attorno al tavolo da pranzo, per via non aveva incontrato assolutamente nessuno; anzi nessuna con cui poter mettere a confronto il suo abbigliamento, le sue scarpe. I suoi pensieri. Si chiedeva dove fosse l’allegra cittadina che ricordava, movimentata a ogni ora del giorno e finanche della notte. Nulla c’era di quel tempo, del suo tempo, dei suoi giorni senza pensieri.
Luisa preferì cavarsela da sola. Che diamine, non si trovava mica in una metropoli… tutto sommato stava in uno sputo di paese. Che poi, per quanto bestemmiato, era pur sempre il suo paese! Le sarebbe piaciuto fare subito un giro per il centro abitato, ma quell’insolito stranimento che l’aveva preso scendendo dalla corriera la fece sentire fuori luogo, e non solo per l’ingombro del bagaglio che si tirava dietro.
Un tempo non sarei stata affatto timorosa. Avevo tutt’altra indole!
Ero cordiale, affabile, salutavo tutti, anche da lontano, fosse solo alzando un braccio; e la gente mi dava risposta oppure mi salutava per prima e io ricambiavo dando loro il buongiorno o la buonasera.
Un’epoca assai lontana, ahimè, quando il paese mi pareva caldo di presenze e di affetti. Ora, invece, temevo intimamente che potessero sbarrarmi la strada per interrogarmi su chi fossi. Per chiedermi a chi appartenessi. Per sapere da dove venissi e che cercassi. Rivangando, così, fatti e nomi di un passato che avevo difficoltà a rivivere. Del resto a casa non ero voluta tornarci nemmeno quando seppi del terremoto che aveva sconvolto la mia terra, procurando morte e distruzione anche nel mio comune. Che cosa avrei mai potuto fare? Mi sentivo così inerme, impotente di fronte alle immagini che la televisione rimandava di quelle immane tragedia umana. Andarci comunque e sentirmi un peso, oppure restare a Moncalieri, prigioniera del vigliacco isolamento nel quale mi ero rinchiusa?
La notizia della catastrofe, però, mi tenne attaccata per giorni alla televisione. Ne ero sinceramente provata, nonostante l’aver saputo quasi subito che mio padre e mia madre ne erano usciti miracolosamente indenni aveva in qualche misura placato la mia angoscia, spianato i miei rimorsi. E tacitato almeno in parte il rimprovero muto che tormentava la mia coscienza per non essere partita come avevano fatto in tanti, richiamati da affetti coltivati amorevolmente o sospinti da uno spirito solidaristico che una volta apparteneva anche a me. Di nessun altro mi importava.
Appena un anno dopo il sisma, però, il destino scrisse ancora più duramente sulle pagine della mia vita, allorché un incidente d’auto rubò la pur rassegnata esistenza dei miei genitori. Psicologicamente fu per me una nuova tragedia, che contribuì ad allontanarmi ancora di più dal paese. Un luogo che pareva volesse respingermi definitivamente, addirittura ripudiarmi per sempre. Avvertivo come se ci fosse stato chi avesse deciso che dovesse essere reciso definitivamente il cordone ombelicale che in qualche misura mi teneva ancora attaccata al mio passato. Insomma vissi quella disgrazia come un’altra maledizione, tanto che in paese ci restai solo il tempo necessario per la tumulazione. Non mi suggestionarono i cumuli di macerie, le case sgarrupate, le travi spezzate e le pareti scoppiate. Nulla mi dissero i tetti planati quasi inconsapevolmente sulle molli fondamenta di fabbricati inconsistenti. No, non era proprio il caso di perdermi tra carte bollate e muri sconnessi, privi della dignità che neppure le mille lacrime dei sopravvissuti erano riuscite a preservare. E che sarebbe stato meglio restare lontana da tecnici supponenti, costruttori rapaci e amministratori bravi solo a dilapidare i soldi stanziati dal Governo, come avevano cercato di convincerci la televisione e i giornali di quei giorni.
Tempo dopo, dal Municipio del mio paese mi arrivò una lettera che mi notificava l’esproprio del suolo dove sorgeva la mia vecchia casa. Avrebbero dovuto farvi non so che cosa. Non battei ciglio e mi limitai a incassare il modesto ristoro che mi venne riconosciuto. E questo mise fine alla vicenda.
***
Piuttosto che tornare nella sua cittadina Luisa aveva preferito restare a Moncalieri, in compagnia delle solide certezze di una donna poco meno che quarantenne, presa dalle manie compulsive di chi sa di aver raggiunto una posizione confortevolmente agiata. Ma anche da inquietudini e frustrazioni, collezionate come le figurine che da bambina appiccicava sull’album, sognando di essere Anna dai capelli rossi o di diventare una campionessa di pallavolo. – «Che illusione la vita», concluse, amara!
Era cinica, Luisa? Forse. Ma quando lasciò che questi pensieri le riempissero la mente nulla aveva fatto per scacciarli, anzi se li era tenuti stretti, li aveva coccolati finanche, immaginandoli suoi amici fedeli.
A mandare in frantumi le mie stramberie mentali era stato un libro di poesie, trovato per caso nella cesta di un vecchio rigattiere. Un volumetto di poesie di Prévert, Paroles. Mi ricordai di averne avuta una copia in italiano, in un altro tempo di un’altra vita. Dovresti ricordarlo pure tu, perché ogni tanto me lo toglievi dalle mani. Provai a sfogliarlo:
Notre amour reste là
Têtu comme une bourrique
Vivant comme le désir
Cruel comme la mémoire
Già, la memoria… Un brivido percorse le mie mani. E non solo. Rammento che mi sbrigai a tirare fuori i pochi spiccioli che il vecchietto mi aveva chiesto e lo comprai, esitando se continuare a leggere oppure se riporlo nella borsa. Optai per la seconda. Una sorta di pudore mi aveva presa, come se scorrere le pagine ingiallite di quel libro potesse mettermi a nudo davanti agli altri.
E nuda coi suoi pensieri si sentì rientrando a casa, dove si tuffò nel da fare di chi deve regolarsi da sola la giornata. Eggià, perché Luisa era sola. Senza legami fissi. Una scelta contraddetta soltanto da qualche rara e, per dirla tutta, talvolta anche piacevole trasgressione, volutamente consumata in un niente. Era il pegno che s’era imposta di pagare, mentre la sua gioventù sfioriva nelle pieghe delle prime rughe e di qualche capello bianco, abilmente nascosto sotto la nuance castano chiara suggerita dal suo coiffeur di fiducia. L’unico uomo nelle cui mani aveva acconsentito di mettere non solo la sua testa ma anche tutti i pensieri che vi erano custoditi.
Fu solo a tarda sera che riprese in mano le poesie di Prévert, scorrendo i versi che un tempo aveva amato, ognuno dei quali le restituiva un’emozione, un’immagine, una circostanza, finanche note musicali ripescate dai suoi lontani trascorsi. Aver ritrovato quel libro le ricordava in qualche modo di avere un passato, la illudeva di possedere ancora delle radici che, suo malgrado, affondavano da qualche parte in un terreno che non aveva più coltivato né con la mente né, tampoco, con la presenza. Infine crollò sotto il peso delle suggestioni e si addormentò, lasciando che il libro le scivolasse pian piano di mano.
Compresi subito che, senza che davvero lo volessi, il mondo che credevo cristallizzato nella mia memoria si stava inaspettatamente rianimando. Il sonno fu popolato da visioni sfocate. E a nulla servì che mi sforzassi di pensare ad altro per sopire l’insolita inquietudine che via via si faceva dispotica, fino ad esigere con spudorata arroganza che tornassi nei luoghi della mia infanzia, della nostra gioventù.
L’indomani e nei giorni appresso quel pensiero cominciò a diventare ficcante, un vero supplizio. Almeno fin quando non decisi che fosse giunto il momento di impedire alle ombre di rovinarmi l’esistenza. Subito dopo, però, valutavo che in fondo sarebbe stato inutile. E mi chiedevo a che mai potesse servirmi attraversare lo stivale per un turbamento inconsistente, vacuo?
Turbamento lo chiamò, non tristezza né malinconia, né tampoco pensò che fosse nostalgia. Ma di questo Luisa non si avvide. Passò a pensare ad altro. Ad andarsene per un weekend al mare, per esempio. L’autunno, con le sue ugge e le sue inquietudini, era ormai alle porte ma l’aria dolce della riviera ligure invitava ancora ad un ultimo bagno, ad una passeggiata.
Ha un suo fascino la riviera ligure in bassa stagione. Le giornate scivolano lente, rotolando indifferenti tra noiosi concerti e improbabili rassegne d’arte, tra rituali trenette al pesto e freddi calici di fermentino. Niente di frenetico, niente di particolarmente impegnativo. Proprio ciò di cui aveva bisogno Luisa. Le serviva per nascondere il suo accoramento, la sua malinconica smania di trovare risposte che non riusciva a circostanziare.
Una smania che avrebbe volentieri disperso aggirandosi tra maleodoranti caruggi e inutili mercatini di antiquariato o con lunghe camminate, una volta per lei assai gradevoli, sulla sabbia bagnata da un’acqua marina coi colori inquietanti. In compagnia di qualche turista tedesco e di impassibili e sparuti gabbiani che riposavano sugli scogli, incuranti dei problemi degli altri.
Pensò che avrebbe volentieri scambiato i suoi pensieri assillanti con la muta indifferenza di quei volatili; la sua crescente inquietudine con la loro libertà di andare e tornare quando lo desiderassero. E che non avrebbe voluto invecchiare troppo in fretta, come invece le circostanze della sua vita le avevano imposto. Pensò che sarebbe stato bello restare ancora per un po’ la ragazza dei suoi anni migliori. Invece le era capitato di dover fare i conti con il tempo passato troppo velocemente, con poesie non lette e cose non fatte, con uomini che deludono e l’insonnia che stanca. Per fortuna le restava il lavoro a riempirle la vita.
Nonostante tutto, meglio gli scogli del Ponente ligure che i monti verde cupo dell’Irpinia, si era ripetuto fino allo sfinimento. Ma evidentemente cominciò a non bastarle questo insolito mantra se iniziò a crucciarla il profumo delle castagne lessate con le foglie di alloro e l’odore del mosto di vino con il quale la mamma inzuppava i peperoni prelevati dal vecchio orcio d’argilla, sepolti sotto un bagno di aceto.
La decisione mi appariva ineluttabile. Anzi, era ineluttabile. Cosicché bastò qualche telefonata per fissare il volo per Capodichino, informarmi sui pullman che arrivavano in Irpinia e cercare dove alloggiare. Rammentavo che in paese c’era una locanda frequentata da magistrati, avvocati e professori di liceo, pomposamente chiamata ’Albergo del Leone’, gestita da due anziane sorelle, capelli d’argento con vivaci riflessi turchini. Ovviamente non la trovai. Era crollata con il terremoto o forse semplicemente non c’era più… del resto era passato tanto tempo! E non trovai nessun altro albergo, se non una pensioncina anonima, insignificante, che mi fu suggerita da un garbato centralinista del municipio a cui giocoforza dovetti far ricorso. Mica potevo chiamare te. Ricordo, però, ancora la cortesia dei proprietari di quell’alloggio, che con grande semplicità cercarono di mettermi a mio agio.
Durante tutto il viaggio Luisa lasciò libero sfogo alle suggestioni che popolavano la sua mente e che ogni volta si combinavano in visioni sempre diverse tra loro. Frammenti agitati nel caleidoscopio della vita, che le fecero pensare come la via verso casa era tutt’altro che breve.
Già quando scese l’ultimo scalino della corriera aveva avvertito netta una sensazione che la riportava a molti anni addietro, facendole riassaporare antiche gioie ma anche riprovare lancinanti dolori. Dolori d’amore che, si sa, sono insopportabili per chi è di animo gentile o per chi li sperimenta senza i necessari anticorpi.
***
La stanza era accogliente e luminosa e anche l’arredo era gradevole. Sapeva di vissuto e in qualche modo mi ricordava la mia vecchia casa, come quella Sacra Famiglia che sovrastava la testata del letto e che ricordavo simile a quella nella stanza dei miei genitori.
I padroni, Menina e Gino, erano una coppia di giovani che aveva scelto di restare e di scommettere il loro futuro sul paese natio. Non mi conoscevano e nulla sapevano della mia famiglia. Meglio! Così, dopo aver detto poco di me, potetti scandagliare con più libertà come si vivesse in paese dopo il terremoto, se fossero contenti di essere restati o se rimpiangevano di non aver mollato tutto e scappato via, come avevano fatto in tanti.
Insomma, rotte le deboli cataratte dell’impassibile distacco, non mi trattenni dal chiedere ciò che per una vita non avevo potuto o voluto sapere da nessuno. Ammesso che ci fosse stato a chi chiederlo.
Restata sola con Menina azzardai domande su questo e su quella. Seppi così che il prete di quando ero ragazza era morto sotto le pietre e così pure il sindaco di quel tempo. E non era andata meglio al farmacista.
Ogni famiglia aveva avuto i suoi lutti, le chiarì la donna, aggiungendo che lei stessa aveva perso zii e cugini. Seppe pure, ma quest’informazione arrivò per caso, che Rocco, il suo ex fidanzato, colui che era stato causa della sua fuga e che mai l’aveva cercata, era ora il nuovo sindaco del paese. Faceva il medico come aveva sempre voluto (in quanto a determinazione era bravo, non c’era che dire, considerò Luisa), ma il camice gli serviva per agevolare le sue ambizioni non certo per fare l’interesse della sua comunità, che dopo tanti anni dalla terribile sera del sisma ancora non riusciva a ritrovare se stessa.
Sapevo che tornare in paese mi avrebbe costretta a fare i conti anche con il tuo nome e con la nostra vicenda. Ero preparata a questo. Ciononostante il solo risentirlo pronunciare mi procurò un sussulto. Uno scotimento che mi percorse il petto ma anche le dita delle mani, che cominciarono a rincorrere le geometrie della tovaglia da tavolo che ripetutamente continuavo a distendere davanti a me, per stirare pieghe inesistenti.
Il film della mia storia con te mi guizzò davanti agli occhi, fotogramma dopo fotogramma, senza pausa alcuna. Mi dissi che tu eri un farabutto – oddio quante volte l’ho pensato e intimamente dichiarato – e che era stato un errore madornale cedere alle tue lusinghe e credere che avremmo potuto avere un futuro assieme.
***
Non aveva ancora vent’anni Luisa ed era innamorata persa del suo ragazzo. Rapita almeno fino a quando non le cadde il mondo addosso scoprendo che alle sue spalle Rocco aveva costruito un’altra relazione. E con chi, poi? Un classico: con quella che riteneva un’amica leale. Le sembrò che potesse morirne per la rabbia e per il dolore. Ancor più quando il ragazzo si mostrò indifferente al dolore che la struggeva.
Né a lui né a nessun altro disse che aspettava un bambino. – «Da Rocco e da chi altri, sennò?», ripeteva tra sé, anticipando la risposta a una domanda che nessuno le fece mai.
Preferii partire, andarmene il più lontano possibile per fare ciò di cui non mi sono mai pentita abbastanza. E dire che mi ero data a te per amore, assecondando languide carezze e baci cocenti che hanno riempito i miei giorni e le mie notti.
Che scema che fui, avrei dovuto mandarti a fanculo e senza titubanza alcuna riprendermi la vita tra le mani. Invece scelsi di seppellire tutto nella profondità dell’anima, sotto una indicibile rabbia.
Ora che mi trovavo nuovamente in paese, le immagini di quei giorni riemergevano prepotenti e cominciavano a prendere forma, diventando sempre più nitide. Avrei potuto addirittura odorarle, se avessi voluto. Stranamente, però, erano solo immagini di giorni felici, nulla che potesse turbarmi. E questo mi indusse a pensare che tutto sommato la via del ritorno era stata più breve di quanto avessi supposto.
Era già tardo pomeriggio e quando Luisa provò a informarsi dove poter cenare non si meravigliò quando Menina l’invitò a mangiare con loro. Il senso di ospitalità della sua gente non si era perso e di questo intimamente ne gioì.
Dopo essersi raccontate pezzi delle loro vite e aver rivissuto vecchie consonanze del paese, Luisa andò a dormire con un’insolita ma gradevole sensazione di serenità. Contentezza avrebbe potuto finanche dire, se non avesse avuto il timore di enfatizzare quella inusuale piacevole percezione interiore.
Nel letto mi girai e rigirai, colpa di un cuscino insolitamente alto, riempito di lana come quelli che preparava la mamma, ma anche a causa del frinire insistente di una fastidiosa combriccola di grilli, che nonostante la stagione ancora bucavano il silenzio della notte, rifiutandosi di arrendersi all’autunno che incombeva. I grilli… era un’eternità che non li sentivo.
I pensieri rimbalzavano da parte a parte, passando in rassegna tutte le emozioni possibili annidate nel mio animo: la nostalgia, il rincrescimento, il rimorso, i ricordi allegri e quelli che ancora mi intristiscono; flashback su avvenimenti divenuti sensazioni ancora vive o addirittura mitizzate e altri su fatti che credevo rimossi per sempre. Se andassimo a ripescare certi ricordi nelle pieghe dove li ha incistati la nostra quotidianità, li ritroveremmo ingialliti e rinsecchiti come fogli che un tempo erano nuovi.
Davanti ai miei occhi sfilavano sorridenti i visi delle amichette con le quali saltavo la corda nella piazza vecchia. Visi bagnati da tramonti rossastri che bruciavano l’orizzonte. Volti noti e altri intravisti di sfuggita, quando con la mamma andavo tra le baracche del mercato. Si riaffacciò il volto esangue della vecchietta dei cannellini nasprati, a cui era così facile scroccare una stecca di liquirizia, e il viso della fornaia, nero e grinzoso come le pareti scrostate del sottano da dove usciva prepotente un profumo di pane fresco che riempiva i vicoli fino a penetrare ogni casa.
Quando finalmente riuscii a prendere sonno sbucarono vigliacchi i fantasmi dei miei giorni più brutti. Mi rividi rabbiosa con te, addirittura inferocita. Sul treno per Torino. Con le gambe allargate sulle forcelle del ginecologo, sola, umiliata, con gli occhi sbarrati. E poi in lacrime al funerale di mio padre e mia madre, in una chiesa che non mi diceva più nulla, dove le due bare di frassino chiaro erano l’unica macchia di colore che contrastava il nero tormentato dei vestiti delle donne e la rassegnazione mesta degli uomini.
Per fortuna la sveglia arrivò prima che altre visioni potessero rovinarmi irrimediabilmente la giornata, che nei miei piani doveva portarmi in giro per il paese. Il mio paese. Il nostro paese. Mi fosse costato tutto il dolore del mondo volevo rivedere quei posti, calpestarli di nuovo, carezzarli con gli occhi. Ero pronta anche a lasciare sulla tela il malessere che non mi mollava da tempo.
Fu così, con il cuore gonfio e le gambe rigide come quando giocava alla corsa nei sacchi, che Luisa s’infilò nei vicoli della sua fanciullezza. Il paese era un deserto di pietra. Le macerie erano state rimosse, ma le strade non erano più fiancheggiate da case bensì da spiazzi vuoti facilmente conquistati dagli sterpi.
Incredula di essere là, angosciata dai ricordi, si scoprì affranta dalla vista dei brandelli di muri che un tempo avevano custodito la banale quotidianità dei suoi paesani.
Da inutili e irrecuperabili lacerti di tetto occhieggiavano qua e là languidi monconi di tubi di gronda, lasciati a penzolare come malvagi peccatori esposti alla irriverente ingiuria dei passanti. Dalle pareti sbrecciate di un vecchio palazzo, innaffiati dalle piogge e scaldati dal sole, sbucavano finanche i rami scheletriti di un sambuco cresciuto tra le fessure di un pavimento sconnesso. L’autunno incipiente li aveva già privati delle foglie e delle bacche nerastre, lasciandoli muti e inermi inquilini delle case diroccate. Assieme a qualche cane sperso e a una tribù di gatti che impassibili se ne stavano ad osservare curiosi dietro gli angoli dei muri o a sonnecchiare raggomitolati su qualche scalino.
Non servirono a rasserenare Luisa gli ampi squarci di azzurro che sbiancavano le rare nubi nel cielo, né la convinzione che la ricostruzione non sarebbe tardata ad essere completata, restituendo dignità a quei posti che le apparivano come una carcassa dilaniata.
Fu amaro scoprire che quando poi ci torni, i luoghi che hai conosciuto non sono mai come li ricordavi e che il viaggio per giungervi attraversa sempre l’anima, pensò Luisa guardandosi intorno confusa.
Vide case nuove, persino belle malgrado non ci fossero più gli antichi portali di pietra e le ringhiere panciute ai balconi. Nulla, invece, ritrovò dei luoghi imprigionati nella sua memoria: il muretto dove giocava alle cinque pietre, la chiesetta dei Misteri di Pasqua, il chiosco di legno coi giornalini delle sue prime letture, il portone del primo bacio dato per scherzo. Scorse invece porte serrate e alle finestre scuri chiusi, come mai ricordava di averli visti. Nemmeno quando, bambina, c’era stata quella grossa nevicata e il polverino aveva ammassato la neve fino a rendere irriconoscibile il paesaggio e difficile persino il rientro a casa.
Era molto lontano ciò che un tempo era vivo tra quelle vie. Come non crederlo guardando una stanza squarciata, ultimo residuo di una demolizione incompiuta, che senza ritegno mostrava ancora l’intimità violata di un letto disfatto e di un armadio caduto, rovesciando una vecchia bambola di biscuit confusa tra panni logori per le tante stagioni trascorse. Una bambola simile a quella che ebbi per una befana di chissà quale anno infantile, memoria di giorni sereni, sentinella di progetti inevasi.
Dopo aver recuperato le giuste coordinate, il primo posto di cui andai in cerca fu quello dov’era impalata la mia vecchia casa. Ovviamente sapevo che non c’era più, che era stata demolita, ma almeno l’area ci tenevo a ritrovarla. Che delusione! Al suo posto c’era un luogo informe che una targa in pietra chiamava con non poca enfasi “Agorà”. Un pugno nello stomaco mi avrebbe fatto meno male!
Dov’erano i gerani alle finestre? Le bandiere di bucato disteso sulle corde tese tra i balconi? E le botteghe e i fontanini a cui mi dissetavo dopo i giochi e le corse sfrenate? Mi sconcertò di più, però, non aver incontrato nessuno durante il mio giro. Era mai possibile che le ciarle delle donne e lo schiamazzo arruffato dei bambini che riempivano i vicoli si fossero arresi al grande silenzio?
Nulla, non c’era più nulla del mio passato. Riconoscevo soltanto i colori dell’autunno che avanzava noncurante dell’altrui sofferenza, imponendo i suoi colori, il giallo, l’arancio cupo, il rosso vinaceo, alle foglie cadute, agli alberi e alle siepi, appena qualche settimana prima ancora spocchiosamente verdeggianti. Restava arrogante l’odore di cemento, di muffa, di freddo. Finanche la chiesa era senza campanile. La mia chiesa, quella del catechismo con le suore e della prima comunione, quella dove un giorno avrei voluto sposarmi con l’organo che rimandava le note dell’Ave Maria.
Fu là che Luisa decise di aprire il cavalletto. Ne allungò con calma le gambe, pareggiandole sui selci sconnessi del borgo. Vi pose sopra la tela e prese finalmente a dare sfogo al suo inconsapevole risentimento. Alla sua rabbia inconfessata. Al suo livore coltivato nel silenzio assordante di anni passati lontani. Quattro schizzi col carboncino e l’architettura della chiesa cominciò a prendere forma sulla tela bianca. Non insistette sui dettagli, voleva cogliere l’insieme, catturare il contesto. Non serviva sprecare la luce favorevole né la circostanza che nessuno ci fosse a curiosare.
Solo dopo si decise a prendere i colori e a stemperarli sulla tavolozza, associando ad ognuno di essi un suo stato d’animo. Principalmente quelli che nonostante il tempo passato ancora non le era riuscito di rielaborare.
Quando ritenne di non dover chiedere null’altro alla tavolozza rientrò nella pensioncina, muta e sconcertata più di quanto non lo fosse stata arrivando in paese. Rientrò accolta dal profumo aromatico di pomodoro e basilico che si alzava dalla pentola sul fornello e dal largo sorriso di Menina.
Tornare a respirare l’aria della mia infanzia mi ha dato un inspiegabile turbamento che mi ha fatto trattenere le lacrime per tutto il tempo. Dissi. Quasi che quel sorriso fosse stato un’implicita domanda. Nulla, invece, rivelai della mia delusione e men che meno delle emozioni riaffiorate d’impeto dall’angolo più remoto del mio animo. Né mi lagnai che quello che avevo rivisto dopo tanti anni era sì il mio paese, ma che l’avevo ritrovato spento come se gli avessero trafugato il soffio vitale; il genius loci, avrebbe detto il mio vecchio professore di storia.
No, in effetti Luisa non disse molto del suo girovagare tra i vicoli scomposti del suo paese. Per lei, però, parlò la tela che aveva appoggiato allo stipite della porta e su cui Gino aveva posato lo sguardo, colpito dalle tinte infuocate, dalle sfumature di giallo e di carminio che stagliavano la chiesa su uno sfondo grigio fegato, cupo come il cielo prima dei temporali estivi. Fu facile per l’uomo riconoscere l’animo turbato di chi aveva appena stracciata la foto più bella del proprio album di ricordi. E non gli venne difficile nemmeno avvertire una sorta di sussulto, come di rabbia, che per un attimo aveva alterato il viso della donna.
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A Luisa non sarebbe dispiaciuto incontrare Rocco, non fosse altro che per rinfacciargli, più che i vecchi rancori, la responsabilità di non essersi preso cura del luogo dei suoi giorni più belli. Rendendoglielo anonimo agli occhi e al cuore.
Tutto sommato è stato meglio non averti rivisto. La tua figura mi sembrò che si fosse evaporata. Non la ritrovavo più nel suggestivo repertorio delle cose più belle. Come il paese dei miei giorni spensierati e tristi, dove mi ero meravigliata e incupita. Il paese dov’ero stata coccolata e rimproverata, dove avevo coltivato passioni e provato cocenti delusioni. Il paese dei falò d’inverno e delle primavere tinte d’infiniti colori, il paese dov’ero diventata donna e da dove fuggii frustrata nell’animo più che nel fisico. Beh, quel paese non l’ho più rinvenuto. Svanito anch’esso o forse, chissà, restato imprigionato in fondo ai cassetti della mia memoria; sepolto da nuove e più accese emozioni; vivo a modo suo, ma incapace di manifestarsi come il cuore, il mio cuore, avrebbe desiderato. Già, perché è nel ricordo che le cose, sottratte alla volubilità del tempo e ai mutamenti traumatici, trovano la loro perfezione.
Del suo paese, quello reale, restavano oramai solo i colori accesi stemperati con rabbia su quella tela incartata alla meglio e che le faceva compagnia sulla corriera, mentre ripensava alla sua vita in salita. E intanto nella cuffietta la radio rimandava le parole di canzoni del suo tempo giovane. Eterne evergreen, anche se per la prima volta quelle note le sembrarono amare, senza la soavità della nostalgia.
In fondo la nostalgia è il sentimento che riporta a galla ricordi apparentemente assopiti, dai quali a volte si vorrebbe scappare perché possono far male. Ma in cui è pure piacevole rifugiarsi, lasciandosi avvolgere, per vivere, dalle emozioni di un passato che non si è potuto assaporare compiutamente. Per fortuna, però, è anche un percezione volatile; tanto dolorosa quanto inconsistente; come una lacrima che mentre scivola lentamente sulla guancia evapora già in un sorriso.
Gli occhi fissi al finestrino, Luisa riguardava la tristezza che come una cappa di nebbia opprimeva la piazza e le vie del suo passato, mentre la vecchia corriera, stanca di chilometri e di storie ascoltate, procedeva in discesa, scansando con le buche anche i sensi di colpa. Suoi compagni per fin troppo tempo e che ora finalmente l’avevano lasciata sola. Sola con il suo sollevato scoramento, perché la vita – lo aveva scoperto a sue spese – attraversa l’esistenza senza che mai le appartenga per davvero.
Mentre il paese scivolava via assieme ai miei ricordi, rimisi nella borsa il libro di poesie di Prévert che avevo portato con me, sperando vanamente di poterne sfogliare ancora qualche pagina.
Non impiegai molto a intuire che non si può leggere la mancanza, ma che tutt’al più la si può solo avvertire. Talora con una sofferenza che come fuoco arde nella carne viva, più raramente con il distacco dell’abbandono.
Ma tutto questo è, oramai, solo un vago ricordo poiché tu sei uscito da me, confuso tra le innumerevoli e indistinte ombre del mio tempo sfumato.
Giunta a casa si scoprì ancora una volta sola, definitivamente sola. Uno specchio le rimandò la sua immagine, nella quale Luisa stentò a riconoscersi. Chissà se per la stanchezza del viaggio o per chissà quale altra ragione. Non indugiò oltre, però, per non farsi ulteriormente turbare, dopo di che poggiò su un cavalletto la tela dove aveva tratteggiata la chiesa del suo paese e restò per un poco a guardarla; almeno fino a quando non si decise a coprirla con un brandello di lenzuolo. Quando disfece il piccolo bagaglio che aveva portato con sé si ritrovò tra le mani nuovamente il libro di Prévert. Ripose anche quello e con le poesie accantonò definitivamente anche la foto di Rocco che, ormai stinta, portava con sé da una vita. La mise nella scatola di latta che custodiva la sua lontana adolescenza, non senza aver prima sfiorato con le dita il volto giovane dell’amore e soffiato un bacio dalla punta dell’indice in direzione dell’immutato interlocutore di tutti i suoi anni dolenti.
L’adagiò lentamente, come si fa con una cosa fragile e preziosa, e richiuse la scatola per l’ultima volta. Almeno fino ad oggi quando, chissà come e perché, se l’è ritrovata tra le mani e l’ha riaperta. A fatica, però, per colpa del tempo passato che, assieme ai capelli imbiancati, le ha regalato il tremore continuo di una malattia che, bastarda, le sottrae giorno dopo giorno lampi di intelletto e la padronanza di sé. E pure con rammarico, poiché, come sbucati dalle nebbie del tempo, sono riapparsi prepotenti gli antichi fantasmi della sua vita. Ombre che, tuttavia, non riescono più a impaurirla.
Ma questo, Rocco, tu non l’ha mai saputo, né mai saprai che la fuga, la mia fuga da te è finalmente finita.