Dopo molti anni Luisa ritorna là dove sono le sue radici, il paese da dove era scappata a seguito di una profonda delusione d’amore.
Tale era stato il suo dolore che non aveva voluto tornarci nemmeno quando aveva saputo che un forte terremoto lo aveva per gran parte distrutto. A convincerla era stata una poesia di Prevèrt. Ciò che ritrova non le piace…


LA FUGA

 


Le finestre sanno tutto di noi. Sui loro vetri si specchiano i ricordi come nuvole senza pioggia e in attesa di silenzio.
(C. Mangiaracina)

Il pullman andava stanco lungo i tornanti della vecchia statale. La stra­da che portava al paese della sua inconsapevole ado­lescenza era lunga, in salita e so­prat­tutto dissestata, così da obbli­gare il povero chauffeur a un ripetuto slalom. E poi, non le era mai piaciuto viag­giare con la corriera per l’odore acre di sudore di cui erano intrisi i sedili e finanche i finestrini, né gradi­va le con­tinue soste ad ogni pur piccolo borgo che attraversava.
Mentre il pullman saliva non po­tette non pensare che la vita arroc­cata e verticale di quel paese un tempo era stata anche sua; un modo di vivere che ora le appariva incredibil­mente ana­cronistico. Per lei, poi, che arriva­va dalla pianura di una città del nord era addirittura privo di ogni ragion d’essere.
Solo ora che ci stava tor­nando, però, quei pensieri si affac­cia­vano alla sua mente. Prima mai l’a­veva pensato, né mai avrebbe cre­duto di potersene distaccare.
Le case, i vicoli del paese, finan­che gli alberi e i larghi scorci che si aprivano sulla valle avevano rappre­sentato tutto il suo mondo. Il più vasto, il più lontano orizzonte della sua fanciullezza, aveva detto un dotto letterato. E non potette non riflettere sul mutamento delle cose, sulle strade che vanno in diverse direzioni e di come tutto ciò, in fondo, fosse normale.

Da quanto tempo mancassi dal nostro paese neppure lo ricordavo. Di sicuro da un’eternità, se le ombre ini­ziavano a sbiadire i volti, a stin­gere i colori, a spegnere i suoni che hanno sottolineato le mie stagioni. E dire che li credevo ben fissi nella mia men­te, nonostante già da un po’ avessi tagliato i ponti con quel mondo che ora, curva dopo curva, si avvici­nava nuova­mente ma che, nonostante mi applicassi, sten­tavo a riconoscere.
Che fine avevano fatto i tigli secolari, ritti come giganti dove ora c’è quell’anonimo spiazzo pieno di nulla? E il bar dei cento ragazzi? E i palazzi nuovi, sorti in un amen là dove prima c’erano solo pruni selva­tici e alberi di mele cotogne? Il mio sguardo, come non sarebbe stato pos­sibile prima, riusciva ora a spin­gersi oltre, arrivando fino al profilo dolce dei monti a mezzogiorno che – pensai – almeno quelli erano ancora al loro posto.
A destra la piazza delle mie inno­centi evasioni.  La riconobbi a mala pena, tanto era cambiata. I bianchi mar­ciapiedi e la lunga teoria di aca­cie erano fasciati come da una sorta di alone di luce che ne defor­mava i contorni, alterandone l’abitu­ale geo­metria. Il pullman però non svoltò e neppure si fermò per farmi scendere. La confusione che già arra­battava le mie certezze lasciò così il passo a una sorta d’irrequie­tezza che mi stor­diva oltremodo.
Ma io devo scendere, dove diavolo mi porta, cominciai a dirmi sotto­voce, prima di azzar­dare di chiederlo all’au­tista, il quale fu lesto a intuire il di­sagio e a rassicurarmi che la corsa sa­rebbe finita poche decine di metri più avanti.
Alla fermata dovetti apparire tal­mente frastornata che un signore, coperto da un pastrano leggero che un tempo aveva avuto una sua digni­tà, la stessa persona che mi ave­va ceduto il passo nello scendere dal­la corriera, si sentì obbligato a chie­dermi se per caso avessi bisogno, che so, di una qualche informazione.
No, grazie, replicai. Ma subito me ne pentii, poiché mi resi conto che senza indicazioni mi sarebbe stato al­quanto difficile raggiungere la mia destina­zione.

Il capolinea era su un piazzale di asfalto nero. Sul ciglio fuoriuscivano spuntoni di pilastri di cemento armato che proiettavano al cielo mon­coni di ferro arrugginiti, puntati come canne di fucile in attesa degli uccelli di passo. Luisa si guardò intorno in cerca di un qualcosa che le facesse capire dove fosse. Nulla c’era del suo tempo. Nulla di quando aveva deciso di fare la valigia e di partire per To­rino, per finire poi a Moncalieri, ap­prendista com­messa in una bouti­que alla moda nella centralis­sima via del Real Colle­gio. Un luogo elegante, colorato che in seguito sarebbe dive­nuto tutto suo. La prima cosa, oltre la sua vita, che avesse mai posseduto per dav­vero. Prati­camente l’intero suo mondo, l’ombe­lico di tutti i suoi interessi.
Provò ad andare là dove la memo­ria sbiadita le indicava. Il tempo non era un granché bello. Giorni d’au­tun­no, che le rimandarono nitido il ri­cordo dei giorni  di scuola, con l’usu­a­le sciamare sui marciapiedi assieme ai compagni di classe.  Lungo la stra­da si sentì scrutata, esaminata da oc­chi invisibili. Colpa dell’aria spae­sata che la faceva fore­stiera o forse, chis­sà, del caval­letto e della tela che fuo­riu­sci­vano dalla sacca che portava a tra­colla. Un’antica passione, la pittura, mai del tutto riposta, nemmeno quando la sua mente e i suoi occhi erano stati anneb­biati da circostanze che in nessun caso avrebbe voluto per compagne della sua vita. Ma questo non bastò a rassicurarla, cosicché cominciò a pen­tirsi di aver accettato la sfida con quella vocina che le sus­surrava da dentro: vai… vai!
Evitò di chiedere a una donna sbu­cata da una traversa con passo le­sto. L’intimorì, forse, che fosse intera­men­te ve­stita di nero, dallo scialle alle calze, alle scarpe con i tacchi bassi che tam­bu­rellavano sui selci squadrati della pro­ces­sionale. Il suo modo di vestire le riportò alla mente la figura incanu­tita di sua nonna, sempre am­man­tata di nero, d’estate e d’inver­no, di giorno e di sera. Finanche nelle fe­ste coman­da­te, quando a tutti era dato di poter tirar fuori l’abito più bello.
Luisa si sentì ina­de­guata con il suo trench a tre quarti, di colore verde acido; un sopra­bito che a Moncalieri sa­rebbe stato un capo aggraziato, fi­nanche elegante, in­vece là, al paese, quella tinta le par­ve deci­samente vi­vace e per questo poco appropriata. E con il soprabito anche le scarpe che portava ai piedi, un paio di ballerine dello stesso colore del trench, le sem­bra­rono fuori posto, tanto da pro­cu­rarle un per­ce­pibile disagio, addirittura un’ansia latente che la sua mente per­cepiva come decisamente fastidiosa.
Perché mai non ci aveva pensato prima di partire? Dove aveva creduto di dover andare? Forse che aveva dimenticato qual era il suo mondo, o meglio qual era stato il mondo da cui era scappata come una ladra. Esule volontaria in una terra che tutto som­mato non le era stata matrigna. Anzi ebbe modo di sperimentare cortesia e riservatezza, accoglienza e affabilità. Un calore che talvolta non aveva cono­sciuto nella sua terra d’origine, dove la condivisione sfociava spesso nell’in­vadenza e il riserbo si mutava in sfronta­tezza.
Che strano, pensò, scoprirsi estranea là dove sa­peva che affonda­vano le sue radici, là dove il suo cuore doveva sentirsi quieto, rassere­nato, mentre invece…Un’altra cosa la stupì: anche se era primo pomeriggio, un’ora che forse teneva le per­sone ancora attorno al tavolo da pranzo, per via non aveva incontrato assoluta­mente nes­suno; anzi nes­suna con cui poter mettere a con­fronto il suo abbiglia­mento, le sue scarpe. I suoi pensieri. Si chiedeva dove fosse l’allegra cittadina che ricor­da­va, movimen­tata a ogni ora del giorno e finanche della notte. Nulla c’era di quel tempo, del suo tempo, dei suoi giorni senza pensieri.
Luisa pre­ferì cavarsela da sola. Che dia­mine, non si trovava mica in una me­tro­poli… tutto som­ma­to stava in uno sputo di paese. Che poi, per quanto bestemmiato, era pur sempre il suo paese! Le sarebbe piaciuto fare subito un giro per il centro abitato, ma quell’in­solito stranimento che l’aveva preso scendendo dalla corriera la fece sentire fuori luogo, e non solo per l’ingombro del bagaglio che si tirava dietro.

Un tempo non sarei stata affatto timorosa. Avevo tutt’altra indole!
Ero cordiale, af­fabile, salutavo tutti, anche da lon­tano, fosse solo alzando un braccio; e la gente mi dava risposta oppure mi salutava per prima e io ricam­biavo dando loro il buongiorno o la buona­sera.
Un’epoca assai lonta­na, ahi­mè, quan­do il paese mi pa­reva caldo di presenze e di affetti. Ora, invece, temevo intimamente che potessero sbar­rarmi la strada per interrogarmi su chi fossi. Per chie­dermi a chi ap­partenessi. Per sapere da dove ve­nissi e che cer­cassi. Rivangando, così, fatti e nomi di un passato che avevo diffi­coltà a rivivere. Del resto a casa non ero voluta tornarci nem­meno quan­do sep­pi del terremoto che aveva scon­volto la mia terra, procurando morte e di­struzione anche nel mio comune. Che cosa avrei mai potuto fare? Mi sentivo così inerme, im­potente di fronte alle immagini che la televi­sione riman­dava di quelle im­mane trage­dia uma­na. Andarci co­munque e sentirmi un peso, oppure restare a Moncalieri, prigioniera del vigliacco isolamento nel quale mi ero rinchiu­sa?
La notizia della catastrofe, però, mi tenne attac­cata per giorni alla televi­sione. Ne ero since­ramente pro­vata, nonostante l’aver sa­puto quasi subito che mio padre e mia ma­dre ne erano usciti miracolo­sa­mente indenni aveva in qualche misu­ra placato la mia ango­scia, spianato i miei rimorsi. E tacitato almeno in parte il rimpro­vero muto che tor­mentava la mia co­scienza per non essere partita come avevano fatto in tanti, richia­mati da affetti col­tivati amo­revolmen­te o so­spinti da uno spi­rito solidari­stico che una volta ap­parteneva anche a me. Di nessun altro mi im­portava.
Appena un anno dopo il sisma, però, il destino scrisse ancora più du­ramente sulle pagine  della mia vita, allorché un incidente d’auto rubò la pur rasse­gnata esi­stenza dei miei ge­ni­tori. Psicolo­gica­mente fu per me una nuova tragedia, che contribuì ad allontanarmi ancora di più dal paese. Un luogo che pareva volesse re­spin­germi definitivamente, addirit­tura ri­pu­diar­mi per sempre. Avver­tivo come se ci fosse stato chi avesse de­ciso che do­vesse essere reciso defini­tivamente il cor­done ombelicale che in qualche misura mi teneva ancora at­taccata al mio pas­sato. Insomma vissi quella disgra­zia come un’altra male­dizione, tanto che in paese ci restai solo il tempo necessa­rio per la tumu­la­zione. Non mi suggestionarono i cumuli di macerie, le case sgarru­pate, le travi spezzate e le pareti scoppiate. Nulla mi dissero i tetti planati quasi incon­sa­pevol­men­te sulle molli fondamenta di fab­bri­cati incon­sistenti. No, non era pro­prio il caso di per­dermi tra carte bollate e muri sconnessi, privi della dignità che neppure le mille lacrime dei soprav­vissuti erano riu­sci­te a preservare. E che sarebbe sta­to meglio restare lon­tana da tec­nici sup­ponenti, costruttori rapaci e am­mi­ni­stra­tori bravi solo a dilapida­re i soldi stanziati dal Go­ver­no, come avevano cercato di con­vin­cerci la televi­sione e i gior­nali di quei giorni.
Tempo dopo, dal Munici­pio del mio paese mi arrivò una lettera che mi notifi­cava l’espro­prio del suolo dove sorgeva la mia vecchia casa. Avreb­bero dovuto farvi non so che cosa. Non battei ciglio e mi limi­tai a incas­sare il modesto ristoro che mi venne riconosciuto. E questo mise fine alla vicenda.

***

Piuttosto che tornare nella sua cittadina Luisa aveva preferito restare a Mon­calieri, in compagnia delle solide cer­tezze di una donna poco meno che qua­rantenne, presa dalle manie com­pul­sive di chi sa di aver raggiunto una po­sizione con­for­te­volmente agiata. Ma anche da in­quie­tudini e frustra­zioni, collezio­nate come le figurine che da bambina ap­pic­cicava sull’al­bum, so­gnando di essere Anna dai capelli rossi o di di­ventare una cam­pionessa di palla­volo. – «Che illu­sione la vita», concluse, amara!
Era cinica, Luisa? Forse. Ma quando lasciò che questi pensieri le riempis­sero la mente nulla aveva fatto per scacciarli, anzi se li era tenuti stretti, li aveva coccolati finanche, immaginan­doli suoi amici fedeli.

A mandare in frantumi le mie stram­berie mentali era stato un libro di poesie, trovato per caso nella cesta di un vecchio rigattiere. Un volumetto di poesie di Prévert, Paroles. Mi ri­cor­dai di averne avuta una copia in italiano, in un altro tempo di un’altra vita. Dovresti ricordarlo pure tu, perché ogni tanto me lo toglievi dalle mani. Provai a sfogliarlo:

Notre amour reste là
Têtu comme une bourrique
Vivant comme le désir
Cruel comme la mémoire

Già, la memoria… Un brivido per­corse le mie mani. E non solo. Ram­mento che mi sbrigai a tirare fuori i pochi spiccioli che il vecchietto mi aveva chiesto e lo comprai, esi­tando se continu­are a leggere op­pure se riporlo nella borsa. Optai per la seconda. Una sorta di pudore mi aveva presa, come se scorrere le pa­gine ingiallite di quel libro potesse met­termi a nudo davanti agli altri.

E nuda coi suoi pensieri si sentì rientrando a casa, dove si tuffò nel da fare di chi deve regolarsi da sola la giornata. Eggià, perché Luisa era sola. Senza legami fissi. Una scelta con­traddetta soltanto da qualche rara e, per dirla tutta, talvolta anche piace­vole tra­sgres­sione, volutamente con­su­mata in un niente. Era il pegno che s’era im­posta di pagare, mentre la sua gio­ventù sfio­riva nelle pieghe delle pri­me rughe e di qualche capello bian­co, abilmente nascosto sotto la nuance castano chia­ra suggerita dal suo coiffeur di fiducia. L’unico uomo nel­le cui mani aveva acconsen­tito di mettere non solo la sua testa ma anche tutti i pensieri che vi erano custoditi.
Fu solo a tarda sera che riprese in mano le poesie di Prévert, scorrendo i versi che un tempo aveva amato, ognu­no dei quali le restituiva un’e­mo­zione, un’immagine, una circostanza, finanche note musi­cali ripescate dai suoi lontani trascorsi. Aver ritrovato quel libro le ricor­dava in qualche mo­do di avere un passato, la illudeva di possedere ancora delle radici che, suo malgrado, affondavano da qual­che par­te in un terreno che non aveva più coltivato né con la mente né, tam­poco, con la presenza. Infine crol­lò sotto il peso delle sugge­stioni e si addormentò, lasciando che il libro le sci­volasse pian piano di mano.

Compresi subito che, senza che davvero lo volessi, il mondo che cre­devo cristallizzato nella mia me­moria si stava inaspettatamente riani­mando. Il sonno fu popolato da visioni sfo­cate. E a nulla servì che mi sfor­zassi di pensare ad altro per sopire l’inso­lita inquietu­dine che via via si faceva dispotica, fino ad esigere con spudo­rata arroganza che tornassi nei luoghi della mia infanzia, della nostra gioventù.
L’indomani e nei giorni appresso quel pen­siero cominciò a diventare ficcante, un vero supplizio. Almeno fin quando non decisi che fosse giunto il momento di impedire alle ombre di rovinarmi l’esistenza. Subito dopo, però, valutavo che in fondo sarebbe stato inutile. E mi chiedevo a che mai potesse servirmi attraver­sare lo sti­vale per un turbamento inconsistente, vacuo?

Turbamento lo chiamò, non tri­stezza né malinconia, né tampoco pensò che fosse nostal­gia. Ma di questo Luisa non si avvide. Passò a pensare ad altro. Ad andarsene per un week­end al mare, per esempio. L’au­tunno, con le sue ugge e le sue in­quie­tudini, era ormai alle porte ma l’aria dolce della riviera ligure invi­tava an­cora ad un ultimo bagno, ad una passeggiata.
Ha un suo fascino la riviera ligure in bassa stagione. Le giornate scivo­lano lente, rotolando indifferenti tra noiosi concerti e improbabili rassegne d’arte, tra rituali trenette al pesto e freddi calici di fermentino. Niente di frenetico, niente di particolarmente impe­gnativo. Proprio ciò di cui aveva bisogno Luisa. Le serviva per nascon­dere il suo accoramento, la sua malin­co­nica smania di trovare risposte che non riusciva a circostanziare.
Una smania che avrebbe volentieri di­sperso aggi­randosi tra maleodoranti caruggi e inutili mercatini di antiqua­riato o con lunghe camminate, una volta per lei assai gradevoli, sulla sabbia bagnata da un’ac­qua marina coi colori inquie­tanti. In compa­gnia di qualche turista tedesco e di impassi­bili e sparuti gab­biani che ripo­savano sugli scogli, in­curanti dei pro­blemi degli altri.
Pensò che avrebbe volentieri scam­biato i suoi pensieri assillanti con la muta indifferenza di quei volatili; la sua crescente inquietudine con la loro libertà di andare e tornare quando lo desiderassero. E che non avrebbe vo­luto invecchiare troppo in fretta, come invece le circostanze della sua vita le ave­vano imposto. Pensò che sarebbe stato bello restare ancora per un po’ la ragazza dei suoi anni mi­gliori. Invece le era capitato di dover fare i conti con il tempo passato troppo veloce­mente, con poesie non lette e cose non fatte, con uomini che deludono e  l’insonnia che stanca. Per fortuna le restava il lavoro a riempirle la vita.
Nonostante tutto, meglio gli scogli del Ponente ligure che i monti verde cupo dell’Irpinia, si era ripetuto fino allo sfini­mento. Ma evi­den­temente co­minciò a non ba­starle questo inso­lito mantra se iniziò a crucciarla il pro­fumo delle castagne lessate con le foglie di alloro e l’odore del mosto di vino con il quale la mamma inzup­pava i pepe­roni prele­vati dal vecchio orcio d’ar­gilla, se­pol­ti sotto un bagno di aceto.

La decisione mi appariva inelutta­bile. Anzi, era ineluttabile. Cosicché bastò qualche telefo­nata per fissare il volo per Capodichino, infor­marmi sui pullman che arrivavano in Irpinia e cercare dove alloggiare. Ram­men­tavo che in paese c’era una locanda fre­quentata da magistrati, avvocati e professori di liceo, pomposamente chia­mata ’Albergo del Le­one’, gestita da due anziane sorelle, capelli d’ar­gento con vivaci riflessi turchini. Ov­viamente non la trovai. Era crol­lata con il terremoto o forse sem­plicemen­te non c’era più… del resto era pas­sato tanto tempo! E non trovai nessun altro al­bergo, se non una pensioncina ano­nima, insignificante, che mi fu sug­ge­rita da un garbato centralinista del municipio a cui giocoforza dovetti far ricorso. Mica potevo chiamare te. Ricordo, però, ancora la cortesia dei proprietari di quell’alloggio, che con grande semplicità cercarono di met­termi a mio agio.

Durante tutto il viaggio Luisa la­sciò libero sfogo alle suggestioni che popolavano la sua mente e che ogni volta si combinavano in visioni sem­pre diverse tra loro. Frammenti agitati nel caleidoscopio della vita, che le fe­cero pensare come la via verso casa era tutt’altro che breve.
Già quando scese l’ultimo scalino della cor­riera aveva avvertito netta una sensazione che la riportava a molti anni addietro, facendole rias­sa­porare antiche gioie ma anche ripro­vare lancinanti dolori. Dolori d’amore che, si sa, sono insopportabili per chi è di animo gentile o per chi li speri­menta senza i necessari anticorpi.

***

La stanza era accogliente e lumi­nosa e anche l’arredo era grade­vole. Sapeva di vissuto e in qualche modo mi ricordava la mia vecchia casa, come quella Sacra Famiglia che so­vrastava la testata del letto e che ricordavo simile a quella nella stanza dei miei genitori.
I pa­dro­ni, Menina e Gino, erano una coppia di giovani che aveva scelto di restare e di scommet­tere il loro futuro sul paese natio. Non mi co­noscevano e nulla sapevano della mia fami­glia. Meglio! Così, dopo aver detto poco di me, potetti scanda­gliare con più li­bertà come si vivesse in paese dopo il terremoto, se fossero contenti di es­sere restati o se rim­piangevano di non aver mollato tutto e scappato via, come avevano fatto in tanti.
Insomma, rotte le deboli cataratte dell’im­passibile di­stacco, non mi trattenni dal chiedere ciò che per una vita non avevo potuto o voluto sapere da nessuno. Ammesso che ci fosse stato a chi chiederlo.
Restata sola con Menina azzardai domande su questo e su quella. Seppi così che il prete di quando ero ra­gazza era morto sotto le pietre e così pure il sindaco di quel tempo. E non era andata meglio al farmacista.

Ogni famiglia aveva avuto i suoi lutti, le chiarì la donna, aggiungendo che lei stessa aveva perso zii e cugini. Seppe pure, ma quest’informazione arrivò per caso, che Rocco, il suo ex fidanzato, colui che era stato causa della sua fuga e che mai l’aveva cer­cata, era ora il nuovo sindaco del paese. Faceva il medico come aveva sempre voluto (in quanto a determi­na­zione era bravo, non c’era che dire, considerò Luisa), ma il camice gli ser­viva per agevolare le sue ambizioni non certo per fare l’interesse della sua comunità, che dopo tanti anni dalla terribile sera del sisma ancora non riusciva a ritro­vare se stessa.

Sapevo che tornare in paese mi avrebbe costretta a fare i conti anche con il tuo nome e con la nostra vi­cenda. Ero preparata a questo. Ciononostante il solo risen­tirlo pro­nunciare mi procurò un sus­sulto. Uno scotimento che mi per­cor­se il pet­to ma anche le dita delle ma­ni, che co­min­ciarono a rin­correre le geometrie della tovaglia da tavolo che ripetuta­mente continuavo a di­sten­de­re da­vanti a me, per stirare pieghe inesistenti.
Il film della mia storia con te mi guizzò davanti agli occhi, fotogram­ma dopo foto­gramma, senza pausa al­cu­na. Mi dissi che tu eri un fara­butto – oddio quante volte l’ho pensato e intimamente dichiarato – e che era stato un errore ma­dornale ce­dere alle tue lusinghe e credere che avremmo potuto avere un futuro as­sieme.

***

Non aveva ancora vent’anni Luisa ed era innamorata persa del suo ra­gazzo. Rapita almeno fino a quando non le cadde il mondo addosso sco­prendo che alle sue spalle Rocco aveva costruito un’altra relazione. E con chi, poi? Un classico: con quella che riteneva un’amica leale. Le sem­brò che potesse morirne per la rabbia e per il dolore. Ancor più quando il ragazzo si mostrò indiffe­rente al do­lore che la struggeva.
Né a lui né a nessun altro disse che aspettava un bambino. – «Da Rocco e da chi altri, sennò?», ripeteva tra sé, anticipando la risposta a una do­manda che nessuno le fece mai.

Preferii partire, andarmene il più lontano possibile per fare ciò di cui non mi sono mai pentita abbastanza. E dire che mi ero data a te per amore, assecondando languide carezze e baci cocenti che hanno riempito i miei giorni e le mie notti.
Che scema che fui, avrei dovuto mandarti a fanculo e senza titubanza alcuna riprendermi la vita tra le mani. Invece scelsi di seppellire tutto nella profondità dell’anima, sotto una indicibile rabbia.
Ora che mi trovavo nuovamente in paese, le immagini di quei giorni rie­mer­gevano prepo­tenti e comincia­vano a prendere forma, diven­tando sempre più nitide. Avrei potuto addi­rittura odorarle, se avessi voluto. Stra­na­mente, però, erano solo imma­gini di giorni felici, nulla che potesse tur­barmi. E questo mi indusse a pen­sare che tutto sommato la via del ritorno era stata più breve di quan­to avessi supposto.

Era già tardo pomeriggio e quando Luisa provò a informarsi dove poter cenare non si meravigliò quando Menina l’invitò a mangiare con loro. Il senso di ospitalità della sua gente non si era perso e di questo intima­mente ne gioì.
Dopo essersi raccontate pezzi delle loro vite e aver rivissuto vecchie con­sonanze del paese, Luisa andò a dor­mire con un’insolita ma gradevole sen­sa­zione di serenità. Contentezza avrebbe potuto finanche dire, se non avesse avuto il timore di enfatizzare quella inusuale piacevole percezione interiore.

Nel letto mi girai e rigirai, colpa di un cuscino insolitamente alto, riem­pito di lana come quelli che prepa­rava la mamma, ma anche a causa del fri­nire insistente di una fastidiosa com­briccola di grilli, che nonostante la stagione ancora buca­vano il silen­zio della notte, rifiu­tandosi di arren­dersi all’autunno che in­combeva. I grilli… era un’eter­nità che non li sentivo.
I pensieri rimbalzavano da parte a parte, passando in rassegna tutte le emozioni possibili annidate nel mio animo: la nostalgia, il rincresci­men­to, il rimorso, i ricordi allegri e quelli che ancora mi intristiscono; flash­back su avvenimenti divenuti sensa­zioni anco­ra vive o addirittura mitiz­zate e altri su fatti che credevo rimossi per sempre. Se andas­simo a ripescare certi ricordi nelle pieghe dove li ha incistati la nostra quotidia­nità, li ritroveremmo ingial­liti e rin­secchiti come fogli che un tempo erano nuovi.
Da­vanti ai miei occhi sfila­vano sorri­denti i visi delle amichette con le qua­li saltavo la corda nella piazza vecchia. Visi ba­gnati da tra­monti rossastri che bru­ciavano l’o­rizzonte. Volti noti e altri intravisti di sfuggita, quando con la mamma an­davo tra le baracche del mercato. Si riaf­facciò il volto esangue della vec­chietta dei can­nellini na­sprati, a cui era così facile scroccare una stecca di liquiri­zia, e il viso della fornaia, nero e grinzoso come le pa­reti scrostate del sottano da dove usciva prepotente un profumo di pane fresco che riempiva i vicoli fino a pe­netrare ogni casa.
Quando finalmente riuscii a pren­dere sonno sbucarono vigliacchi i fan­tasmi dei miei giorni più brutti. Mi rividi rabbiosa con te, addirittura infe­rocita. Sul treno per Torino. Con le gambe allargate sulle forcelle del ginecologo, sola, umiliata, con gli occhi sbarrati. E poi in lacrime al funerale di mio padre e mia madre, in una chiesa che non mi diceva più nulla, dove le due bare di frassino chiaro erano l’unica mac­chia di colore che contra­stava il nero tormen­tato dei vestiti delle donne e la rasse­gnazione mesta degli uomini.
Per fortuna la sveglia arrivò prima che altre visioni potessero rovinarmi irrimediabilmente la giornata, che nei miei piani doveva portarmi in giro per il paese. Il mio paese. Il nostro paese. Mi fosse costato tutto il dolore del mondo volevo rivedere quei posti, calpestarli di nuovo, carez­zarli con gli occhi. Ero pronta anche a lasciare sulla tela il malessere che non mi mol­lava da tempo.

Fu così, con il cuore gonfio e le gambe rigide come quando giocava alla corsa nei sacchi, che Luisa s’infi­lò nei vicoli della sua fanciul­lez­za. Il paese era un deserto di pietra. Le macerie erano state rimosse, ma le strade non erano più fiancheggiate da case bensì da spiazzi vuoti facilmente conquistati dagli sterpi.
Incredula di essere là, ango­sciata dai ricordi, si scoprì af­franta dalla vista dei bran­delli di muri che un tempo avevano custodito la banale quotidia­nità dei suoi paesani.
Da inutili e irrecuperabili lacerti di tetto oc­chieggia­vano qua e là languidi mon­coni di tubi di gronda, lasciati a penzolare come malvagi peccatori esposti alla ir­ri­verente ingiuria dei pas­santi. Dalle pareti sbrec­ciate di un vecchio palazzo, in­naffiati dalle piogge e scaldati dal sole, sbucavano finanche i rami sche­le­triti di un sam­buco cre­sciuto tra le fes­sure di un pavi­mento sconnesso. L’autunno incipiente li aveva già pri­vati delle foglie e delle bacche nera­stre, lascian­doli muti e inermi in­qui­lini delle case diroccate. Assieme a qualche cane sperso e a una tribù di gatti che im­pas­sibili se ne stavano ad osservare cu­riosi dietro gli angoli dei muri o a sonnecchiare raggomito­lati su qual­che scalino.
Non servirono a rasserenare Luisa gli ampi squarci di azzurro che sbian­ca­vano le rare nubi nel cielo, né la con­vinzione che la ricostruzione non sarebbe tardata ad essere com­pletata, restituendo dignità a quei posti che le apparivano come una carcassa dilaniata.
Fu amaro scoprire che quando poi ci torni, i luoghi che hai conosciuto non sono mai come li ricordavi e che il viaggio per giungervi attraversa sem­pre l’anima, pensò Luisa guardan­dosi in­torno confusa.
Vide case nuo­ve, per­sino belle malgrado non ci fossero più gli antichi portali di pietra e le ringhiere panciute ai balconi. Nulla, invece, ritrovò dei luoghi im­pri­gionati nella sua memoria: il mu­retto dove giocava alle cinque pietre, la chiesetta dei Misteri di Pasqua, il chiosco di legno coi giornalini delle sue prime letture, il portone del primo bacio dato per scherzo. Scorse invece porte ser­rate e alle fine­stre scuri chiusi, come mai ricordava di averli visti. Nem­meno quando, bambina, c’era stata quella grossa nevicata e il polverino aveva ammassato la neve fino a ren­dere irriconoscibile il pae­saggio e difficile persino il rientro a casa.

Era molto lontano ciò che un tempo era vivo tra quelle vie. Come non crederlo guardando una stanza squarciata, ultimo residuo di una de­mo­lizione incompiuta, che senza rite­gno mostrava ancora l’intimità vio­lata di un letto disfatto e di un arma­dio caduto, rovesciando una vec­chia bambola di biscuit confusa tra panni logori per le tante stagioni trascorse. Una bambola simile a quel­la che ebbi per una befana di chissà quale anno infantile, memoria di giorni sereni, sentinella di progetti inevasi.
Dopo aver recuperato le giuste coordinate, il primo posto di cui an­dai in cerca fu quello dov’era impa­lata la mia vecchia casa. Ovvia­mente sapevo che non c’era più, che era stata demolita, ma almeno l’area ci tenevo a ritrovarla. Che de­lusione! Al suo posto c’era un luogo informe che una targa in pietra chia­mava con non poca enfasi “Agorà”. Un pugno nello sto­maco mi avrebbe fatto meno male!
Dov’erano i gerani alle finestre? Le bandiere di bucato disteso sulle corde tese tra i balconi? E le botteghe e i fontanini a cui mi dissetavo dopo i giochi e le corse sfrenate? Mi scon­certò di più, però, non aver incon­trato nessuno durante il mio giro. Era mai possibile che le ciarle delle donne e lo schiamazzo arruffato dei bambini che riempivano i vicoli si fos­sero arresi al grande silenzio?
Nulla, non c’era più nulla del mio passato. Riconoscevo soltanto i colori dell’autunno che avanzava noncu­ran­te dell’altrui sofferenza, imponen­do i suoi colori, il giallo, l’a­ran­cio cupo, il rosso vinaceo,  alle foglie cadute, agli alberi e alle siepi, appena qual­che settimana pri­ma ancora spoc­chio­samente ver­deg­gianti. Resta­va arrogante l’odore di cemento, di muffa, di freddo. Fi­nan­che la chiesa era senza campa­nile. La mia chiesa, quella del cate­chismo con le suore e della prima comunione, quella dove un giorno avrei voluto sposarmi con l’organo che rimandava le note dell’Ave Ma­ria.

Fu là che Luisa decise di aprire il cavalletto. Ne allungò con calma le gambe, pareggiandole sui selci scon­nessi del borgo. Vi pose sopra la tela e prese finalmente a dare sfogo al suo inconsapevole risentimento. Alla sua rabbia inconfessata. Al suo livore col­tivato nel silenzio assordante di anni passati lontani. Quattro schizzi col carbonci­no e l’ar­chi­tettura della chiesa comin­ciò a prendere forma sulla tela bianca. Non insistette sui dettagli, voleva cogliere l’insieme, catturare il conte­sto. Non serviva sprecare la luce favo­revole né la circostanza che nessuno ci fosse a curiosare.
Solo dopo si decise a pren­dere i colori e a stem­perarli sulla ta­volozza, associando ad ognuno di essi un suo stato d’animo. Principal­mente quelli che nonostante il tempo passato an­cora non le era riuscito di rielabo­rare.
Quando ritenne di non dover chiedere null’altro alla tavolozza rien­trò nella pensioncina, muta e scon­certata più di quanto non lo fosse stata arrivando in paese. Rientrò accolta dal profumo aromatico di pomodoro e basilico che si alzava dalla pentola sul fornello e dal largo sorriso di Menina.

Tornare a respirare l’aria della mia infanzia mi ha dato un inspiega­bile turbamento che mi ha fatto trattenere le lacrime per tutto il tempo. Dissi. Quasi che quel sorriso fosse stato un’im­plicita domanda. Nulla, invece, rivelai della mia delu­sione e men che meno delle emo­zioni riaffiorate d’impeto dall’angolo più remoto del mio animo. Né mi lagnai che quello che avevo rivisto dopo tanti anni era sì il mio paese, ma che l’avevo ritrovato spento come se gli avessero trafugato il soffio vitale; il genius loci, avrebbe detto il mio vecchio professore di storia.

No, in effetti Luisa non disse molto del suo girovagare tra i vicoli scompo­sti del suo paese. Per lei, però, parlò la tela che aveva appog­giato allo stipite della porta e su cui Gino aveva posato lo sguardo, colpito dalle tinte infuo­cate, dalle sfumature di giallo e di carminio che stagliavano la chiesa su uno sfondo grigio fegato, cupo come il cielo prima dei tempo­rali estivi. Fu facile per l’uomo rico­noscere l’animo turbato di chi aveva appena stracciata la foto più bella del proprio album di ricordi. E non gli venne difficile nem­meno avvertire una sorta di sussulto, come di rabbia, che per un attimo aveva alterato il viso della donna.

***

A Luisa non sarebbe dispiaciuto incontrare Rocco, non fosse altro che per rinfacciargli, più che i vecchi ran­cori, la responsabilità di non es­sersi preso cura del luogo dei suoi giorni più belli. Rendendoglielo ano­nimo agli occhi e al cuore.

Tutto sommato è stato meglio non averti rivisto. La tua figura mi sem­brò che si fosse evaporata. Non la ritro­vavo più nel sugge­stivo repertorio  delle cose più belle. Come il paese dei miei giorni spensierati e tristi, dove mi ero meravigliata e in­cupita. Il paese dov’ero stata cocco­lata e rimprove­rata, dove avevo colti­vato pas­sio­ni e provato cocenti delu­sioni. Il paese dei falò d’inverno e delle pri­mavere tinte d’infiniti colori, il pa­ese dov’ero di­ventata donna e da dove fuggii fru­strata nell’animo più che nel fisico. Beh, quel paese non l’ho più rinve­nuto. Svanito anch’esso o forse, chissà, restato imprigionato in fondo ai cassetti della mia memo­ria; sepolto da nuove e più accese emo­zioni; vivo a modo suo, ma inca­pace di manife­starsi come il cuore, il mio cuore, avrebbe deside­rato. Già, per­ché è nel ricordo che le cose, sot­tratte alla vo­lu­bilità del tempo e ai muta­menti trau­matici, tro­vano la loro perfe­zione.

Del suo paese, quello reale, resta­vano oramai solo i colori accesi stem­perati con rabbia su quel­la tela incar­tata alla meglio e che le faceva com­pagnia sulla corriera, men­tre ripen­sava alla sua vita in salita. E intanto nella cuffietta la radio riman­dava le parole di canzoni del suo tempo gio­vane. Eterne evergreen, anche se per la prima volta quelle note le sembra­rono amare, senza la soavità della nostal­gia.

In fondo la nostalgia è il senti­mento che riporta a galla ricordi ap­pa­ren­temente assopiti, dai quali a volte si vorrebbe scappare perché pos­sono far male. Ma in cui è pure piacevole rifugiarsi, lasciandosi av­volgere, per vivere, dalle emozioni di un passato che non si è potuto assa­porare compiutamente. Per for­tuna, però, è anche un percezione vo­latile; tanto dolorosa quanto incon­sistente; come una lacrima che men­tre scivola lentamente sulla guancia evapora già in un sorriso.

Gli occhi fissi al finestrino, Luisa riguardava la tristezza che come una cappa di nebbia opprimeva la piazza e le vie del suo passato, mentre la vec­chia corriera, stanca di chilometri e di storie ascoltate, procedeva in discesa, scansando con le buche anche i sensi di colpa. Suoi compagni per fin trop­po tempo e che ora finalmente l’ave­vano lasciata sola. Sola con il suo sol­levato scora­mento, perché la vita – lo aveva sco­perto a sue spese – attra­versa l’esi­stenza senza che mai le ap­partenga per davvero.

Mentre il paese scivolava via as­sieme ai miei ricordi, rimisi nella bor­sa il libro di poesie di Prévert che avevo portato con me, sperando va­na­mente di poterne sfogliare anco­ra qualche pagina.
Non impiegai molto a intuire che non si può leggere la mancanza, ma che tutt’al più la si può solo avvertire. Talora con una soffe­renza che come fuoco arde nella car­ne viva, più raramente con il di­stac­co dell’ab­bandono.
Ma tutto questo è, oramai, solo un vago ricordo poiché tu sei uscito da me, confuso tra le innumerevoli e in­distinte om­bre del mio tempo sfumato.

Giunta a casa si scoprì ancora una volta sola, definiti­vamente sola. Uno specchio le rimandò la sua immagine, nella quale Luisa stentò a ricono­scersi. Chissà se per la stanchezza del viag­gio o per chissà quale altra ra­gio­ne. Non indu­giò oltre, però, per non farsi ulterior­mente turbare, dopo di che poggiò su un cavalletto la tela dove aveva tratteggiata la chiesa del suo paese e restò per un poco a guardarla; almeno fino a quan­do non si decise a coprirla con un brandello di lenzuolo. Quando disfece il piccolo bagaglio che aveva portato con sé si ritrovò tra le mani nuovamente il libro di Prévert. Ripose anche quello e con le poesie accantonò defi­ni­tiva­men­te anche la foto di Rocco che, or­mai stinta, portava con sé da una vita. La mise nella sca­tola di latta che cu­stodiva la sua lontana ado­lescenza, non sen­za aver prima sfio­rato con le dita il volto giovane dell’a­more e sof­fiato un bacio dalla punta dell’indice in dire­zione dell’immutato interlocu­tore di tutti i suoi anni dolenti.

L’adagiò lentamente, come si fa con una cosa fragile e preziosa, e ri­chiuse la scatola per l’ul­tima volta. Al­meno fino ad oggi quando, chissà come e perché, se l’è ritrovata tra le mani e l’ha riaperta. A fatica, però, per colpa del tempo passato che, as­sieme ai capelli imbiancati, le ha re­galato il tremore continuo di una ma­lattia che, bastarda, le sottrae gior­no dopo giorno lampi di intelletto e la pa­dro­nanza di sé. E pure con ramma­rico, poiché, come sbucati dalle neb­bie del tempo, sono riapparsi prepo­tenti gli antichi fantasmi della sua vita. Ombre che, tuttavia, non riesco­no più a impaurirla.

Ma questo, Rocco, tu non l’ha mai saputo, né mai saprai che la fuga, la mia fuga da te è finalmente finita.

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Michele Vespasiano

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