Nel XII sec., arrivando dalla Francia, lo stile romanico si afferma nel panorama italiano, soppiantando ma non rinnegando quello longobardo e carolingio, i cui campi essenziali dell’attività artistico-culturale erano contraddistinti dalla preferenza per l’ornamentazione astratta e dall’attenzione per l’arte antropomorfa, indirizzata ad illustrare contenuti storici e cristiani.
Nel nuovo linguaggio scultura e architettura si ritrovano profondamente legate, tanto che la prima diviene imprescindibile elemento al servizio della seconda. E infatti l’arte dello scolpire è vista come uno ”strumento” utile a decorare una più complessa struttura architettonica; ne viene, di conseguenza, che diventano maggiormente diffusi numerosi esempi di sculture lapidee, realizzate per lo più in rilievo, basso o alto che sia oppure con la tecnica dello stiacciato, che rendono obsoleto il tuttotondo ritenuto più consono alla statuaria classica.
Nell’esterno delle chiese tali decorazioni si ritrovano per lo più nei timpani, nelle lunette, nelle cornici, nelle strombature dei portali e in alcuni elementi ornamentali delle facciate (come i marcapiani, le mensole, le arcatelle, i frontoni, ecc.); di contro, all’interno, lo stiacciato, più che le altre stesure a rilievo, si ritrova come elemento compositivo degli amboni, dei capitelli, dei paliotti d’altare, delle lastre tombali, delle arche funebri o, più semplicemente, sulle pareti delle navate.
I temi scultorei a cui i lapicidi fanno maggiormente ricorso, poi, sono vari e talvolta fantasiosi, passando da quelli a carattere religioso (solitamente ispirati alle storie vetero e neotestamentarie), alla trattazione di ambientazione attinente la semplice vita quotidiana (il lavoro, gli animali, il succedersi delle stagioni, ecc.). Molto diffusa è anche la rappresentazione di bestiari fantastici e la decorazione di tipo floreale e geometrico, passando da fogliame e racemi stilizzati alle composizioni più astratte. L’intento di queste espressioni scultoree, connotate da poca volumetria e plasticità e talvolta da evidente goffaggine, è quello di trasmettere in maniera intuitiva e di facile lettura un messaggio morale e religioso che altrimenti al popolo, largamente illetterato, sarebbe restato probabilmente oscuro.
Nell’iconografia santoriale, anche questa generosamente diffusa, le più ricorrenti sculture a bassorilievo, principalmente in ambito meridionale, furono le lastre raffiguranti “San Michele che abbatte il drago”. Evidente recupero, dopo gli avvenimenti epifanici del Gargano, della ben conosciuta devozione verso l’angelo guerriero che era largamente praticata sia nella Langobardia Maior che in quella Minor.
Va ricordato che il tema dell’Arcangelo che sconfigge Satana, destinato a diventare molto popolare soprattutto in Occidente, trae origine dal libro dell’Apocalisse (12, 7-9) mentre la sua più rilevante attestazione iconografica avviene tra XI e XII secolo. Un autentico capolavoro è la lastra del secondo quarto del XII secolo conservata al Louvre e che un tempo occupava la parte centrale del timpano romanico della facciata ovest della cappella Saint-Michel presso l’abbazia benedettina di Notre-Dame de Nevers (fig. 1).
(fig. 1)
Ed è a questa particolare produzione figurativa che va iscritto il bassorilievo (fig. 2) con l’Arcangelo presente nella Chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie di Guardia Lombardi (fig. 3), di cui non sono note né l’individuazione autoriale né tampoco il tempo di fattura.
(fig. 2)
(fig. 3)
La scultura (mis. cm 70×120), realizzata su una lastra di pietra con la tecnica dello stiacciato, con larga probabilità è opera di un lapicida dal dichiarato gusto romanico, giunto probabilmente al seguito di un dominus delle terre guardiesi. Risale certamente a un’età che non dovette essere tanto lontana dall’erezione dell’antico tempio cittadino, avvenuta nel 1315, come lascia intendere un’epigrafe ritrovata nell’area presbiterale. Nulla, in verità, vieta di immaginarla più tarda, considerando che nei territori orograficamente più difficili, com’è quello altirpino, i modi e le temperie culturali arrivarono con notevole ritardo.
La lastra, la cui primitiva e originale collocazione ci resta altrettanto ignota, a seguito di riadattamento del tempio è stata successivamente riallocata su una faccia del pilastro che in cornu epistolae divide il transetto dalla nave centrale, giusto sotto il pulpito in noce massiccio, pregevole opera degli ebanisti guardiesi Giacomo e Angelandrea Di Leo.
Per tentare una sia pur approssimativa datazione dell’opera, appare confortante il raffronto con analoghe scultura lapidee che si ritrovano in area meridionale, dove, assieme ai guerrieri normanni, arrivarono, seppure in deciso ritardo rispetto al resto del Paese, sia il linguaggio espressivo di XII-XIII secolo sia i lapicidi capaci di trasferire sulla pietra la nuova visione iconografica e decorativa. Una scelta, questa, che fu capace di superare il gusto per l’ornamentazione stilizzata tipica di quella barbarica e particolarmente di quella largamente diffusa nella Langobardia minor.
In obbedienza alla koinè romanica, che rinuncia a rincorrere la perfezione dei corpi, il lapicida guardiese si limita a rimodulare con una tarda visione stilistica i canoni iconografici fissati dalla scultura di quel tempo, in particolar modo nella figura frontale e ieratica del principe degli angeli, nello schematismo delle sue vesti e ancora di più nella semplicistica figurazione del dragone.
A parere dei più accreditati studiosi italiani e stranieri, la rappresentazione dell’Arcangelo che abbatte il demonio pare sia nata proprio in Italia e più convincentemente sul Gargano. A Monte Sant’Angelo, nella basilica culla del culto micaelico nell’Occidente cristiano, vi è una delle prime raffigurazioni di “S. Michele armato di lancia nell’atto di trafiggere il drago” (fig. 4);
(fig. 4)
questa icona lapidea è scolpita in rilievo sulla formella laterale destra della cattedra episcopale della fine dell’XI secolo, che si staglia imponente nella grotta garganica. Nel suo essenziale impianto illustrativo, la solida e compatta immagine dell’Arcangelo e quella orripilante del drago sono rese con un linguaggio popolare, così da essere immediatamente affini all’immaginario devozionale dei fedeli.
La figura del condottiero celeste è assai lontana da quella ideale che, negli anni a venire, ci consegnerà l’iconografia tardo medievale e poi rinascimentale. Come può vedersi, ad esempio, nel San Michele del bassorilievo romanico sulla Torre di San Michele del Castello di Manfredonia (fig. 5),
(fig. 5)
oppure nella statua dell’artista fiesolano Andrea di Pietro Ferrucci (1465-1526) nella basilica garganica, o ancora, per restare vicino a noi, nell’angelo della lastra (fig. 6)
(fig. 6)
realizzata a bassorilievo nel 1528 per la chiesa di Lioni da Giovanni da Nola (1478-1559), dove San Michele, coperto interamente da un’armatura dietro cui s’intravede un manto svolazzante, brandisce la spada piuttosto che una lancia appuntita.
Soprattutto per l’impianto figurativo e i tratti decisi dello scalpello, maggiore interesse comparativo suscita, invece, il raffronto stilistico che viene dall’osservazione del “San Michele” nel pannello romanico nella Cappella Antinori della Chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze (fig. 7),
(fig. 7)
al cui respiro artistico pare essersi inconsapevolmente ispirato l’ignoto lapicida guardiese sia nella figurazione che nella realizzazione a bassorilievo. Analogamente a quello fiorentino, infatti, nella lastra della chiesa guardiese l’Arcangelo ha una posizione stante, cui una modesta inclinazione del busto attribuisce un leggero dinamismo che nulla toglie alla sua ieraticità. Di contro, maggiore movimentismo lasciano immaginare la bocca con i denti digrignanti e le spire convulse della coda del dragone che, vinto, si dibatte vanamente sotto i piedi del suo celeste antagonista. Le ali dispiegate e ancor più il nimbo dichiarano, inoltre, la santità del condottiero celeste.
Il Principe degli angeli, caro alla comunità della cittadina altirpina, imbraccia con la mano destra una lunga lancia (oggetto di un approssimativo restauro) che arriva a trafiggere il drago atterrato alla sua sinistra. Il vestimento è quello tipico delle raffigurazioni micaeliche: la lorica, gli schinieri e uno scudo rotondo con orli smerlati in due baffi orientaleggianti, la cui fattezza rimanda a quello dell’altorilievo dell’Arcangelo che campeggia sulla facciata della Cattedrale di Sant’Angelo dei Lombardi (fig. 8)
(fig. 8)
o al più tardo scudo del “San Michele” di Antonio Baboccio da Piperno (1351-1435) che è in una formella del portone ligneo della chiesa di Sant’Angelo a Nilo a Napoli (fig. 9).
(fig. 9)
Nel bassorilievo guardiese, poi, lo scudo è sostenuto appena dalla mano sinistra dell’Arcangelo, mentre il peso pare gravare per lo più sul corpo del serpente, sul quale poggia sicuro.
Non può non notarsi, infine, che l’angelo Michele che è nella Parrocchiale di Guardia ha un’espressione serena che indulge alla dolcezza, mentre la sua chioma lunga e riccia gli assegna un’età giovanile che ispira fiducia e devozione in chi lo osserva.
Insomma, ci pare di poter concludere che la compassata solennità figurativa, assieme alla straordinaria lavorazione dei salienti elementi iconografici, concorre a realizzare una più che pregevole raffigurazione micaelica, testimonianza del culto caro ai Longobardi che in questa zona dell’Alta Irpinia posero i loro contrafforti a difesa dei loro territori.