Schizzi, quadretti, bozzetti di vita rubati tra le mura domestiche. I racconti si dipanano con leggerezza e ci permettono di sbirciare nella vita degli altri, dei tanti che hanno, come noi, vissuto dei giorni fuori squadro.
La narrazione in prima persona è la scelta che consente allo scrittore di cogliere il lato riflessivo del personaggio, di spostare la telecamera narrativa attraverso inquadrature soggettive che ci catapultano nel vissuto dei protagonisti. Una nota di grande merito in questa scelta rischiosa: lo scrittore è stato capace di creare tanti personaggi diversi, dinamici, mai piatti o banali; ha attraversato ruoli e problematiche, età e sesso.
Il primo racconto “E poi vennero giorni strani”, funge da prologo e tesse il filo sottile che accompagnerà quasi tutti racconti: “Strani giorni, viviamo strani giorni”, citazione abilmente selezionata che rappresenta, delicatamente, la colonna sonora del Taccuino, dosata in apertura e in chiusura, in modo circolare, tale da imprimersi nella mente del lettore e da sintonizzarsi con l’agile volumetto dei “giorni fuori squadro”. Musica e arte, altro topos ricorrente, in un magico intreccio che, in formula catartica, ci invita alla rinascita.
“Numero dispari, uomo”, entriamo nel vivo della narrazione, il linguaggio è fluido e colloquiale, il personaggio è un giovane stranito, destabilizzato dal Covid e dalle donne, ma soprattutto dalla potenza dei nuovi media, della tecnologia che può svelare e nascondere, che ci illude e ci distrae, della quale non saremo mai padroni. Una narrazione che procede per scoperte, fino al termine, quando i due ragazzi, nella fugacità di un incontro reale, preceduto da tanti momenti virtuali, scoprono che l’unica cosa che hanno in comune è il nome.
“Le voci del vicolo”, altro personaggio, nuovo stile narrativo, più intenso, riflessivo, delicato, di una dolcezza quasi antica, come la vestaglietta tirata fuori dalla cassa del corredo. La descrizione segue il ritmo di un’apparizione, un angelo che illumina le giornate di reclusione, un amore platonico accompagnato dalla melodia, tra chitarra e flauto traverso. Si direbbe quasi un racconto d’altri tempi se non ci fosse Pino Daniele a circoscrivere i paradigmi temporali.
“Il pane della discordia” ci riporta nella quotidianità più forte e difficile, il rapporto coniugale. L’uomo, stranamente alle prese con la cucina e con il desiderio di creare, produrre, dare vita al soffice pane, quasi un parto. L’amara ironia di una delusione: la creatura tanto agognata era priva di lievito e la moglie sghignazza come chi lo aveva sempre saputo, sembra quasi che lo scrittore abbia voluto consegnare alle donne il dono della creazione. Nei pochi racconti che affrontano il rapporto marito-moglie, emerge con forza il pensiero dell’autore: la prepotente e, a volte, ingombrante presenza della moglie che impone le scelte, il proprio volere, le regole e il marito che, quasi rassegnato, pur di conservare un equilibrio precario, si sposta più in là.
Uno dei personaggi più intensi e meglio caratterizzati è il professore nel sottoscala. La narrazione ha colto magistralmente le difficoltà della “Didattica a Distanza”, ma le ha condite con la passione di chi, al distanziamento sociale, contrappone il riavvicinamento sociale dei ragazzi. La DAD ha rappresentato il farmaco miracoloso che “l’onesta brigata” aveva rintracciato nella narrazione delle novelle. Allo stesso modo la scrittura del Taccuino ha ridato i giorni ad un calendario dilaniato dal virus, nessuna pretesa di filtri magici o pozioni miracolose anti Covid, ma solo il bisogno di narrare, di recuperare la potenza atavica delle suggestioni che i racconti creano nel nostro animo.
[Rosaria Famiglietti]